Cara Miuccia

Un paio di domeniche fa, mentre lontano dai miei occhi indiscreti l’Atalanta batteva il Milan, sono stato con Martina alla Fondazione Prada, ennesimo tassello nella mia personale scoperta di questa Milano che tutto sommato non è così brutta come la si dipinge.

Ne conoscevo l’esistenza soprattutto per via del Bar Luce, progettato nientepopodimenoche da Wes Anderson, mentre mi attiravano meno le collezioni di cui avevo intravisto in città i manifesti. Alla fine, questo Bar Luce non è poi un granché, mentre per visitare l’interno degli spazi espositivi (i padiglioni di una vecchia distilleria dei primi del Novecento, splendidi a prescindere dalle opere che contengono) val bene la pena di spendere i 10 Euro del biglietto, valido per tutte le collezioni, permanenti e temporanee.

Quanto alle mostre, al netto della mia incompetenza, nessuna mi ha colpito particolarmente per originalità. Va detto che, per quanto posso capire, le collezioni sembrano concepite per valorizzare gli spazi più che per l’esibizione in sé e per sé: l’allestimento conta quasi più dell’opera e questo è un concetto forse discutibile, ma senz’altro interessante.

Uno dei percorsi più rilevanti all’interno degli spazi è L’image volée, curato dall’artista Thomas Demand. Leggo dalla presentazione: “una mostra che riunisce esempi di appropriazione artistica: in qualche misura, tutti gli artisti si basano sul lavoro di altri, e nulla viene creato dal nulla. Assemblando opere storiche, lavori recenti e creazioni inedite, la mostra rivela gli espedienti eccentrici e creativi che gli artisti hanno escogitato per impadronirsi di idee e immagini elaborate dai loro predecessori. Esplorando i confini tra originalità, invenzione concettuale e cultura della copia, svela autentici furti, dubbie paternità e appropriazioni di ogni genere… Il progetto nasce dall’idea che l’atto creativo sia inscindibile dal suo contesto e scaturisca da una concatenazione di rapporti che si fonda sull’accesso collettivo ai materiali visivi“.

Non vi tedierò con una descrizione della mostra (se vi interessa, cacciate il deca e andate a vederla) né tantomeno con un puerile tentativo di sminuirla con il classico “questo lo saprei fare anch’io“.

Voglio invece tediarvi con un’autopromozione, perché, in effetti, questo l’ho saputo fare anch’io. Ecco la storia.

Credo di aver già raccontato di quando l’amico Pietro Pace mi aiutò a pittare casa, la casa di Pavia intendo, nella lontana estate del 2007 (“aiutò” è un understatement: fece tutto lui). Dopo aver finito di passare la stanza da letto, azzurra, pensò bene di aggiungere un paio di pennellate estemporanee in corridoio, in corrispondenza dell’attacco della luce all’epoca privo di lampadine. Avevamo concordato che il corridoio l’avremmo lasciato così com’era, anche perché non essendo illuminato, almeno finché non fosse stato montato un lampadario, non era possibile fare un lavoro decente: rimasero perciò solo quelle poche pennellate, un rettangolo di circa 50×70 con in mezzo i fili penduli della luce.

Quando infine luce fu, fu anche sconcerto nell’apprendere che il muro del corridoio, in realtà, era bianco. Tranne quel piccolo rettangolo azzurro. Per nulla contrariato, appesi una cornice in corrispondenza della macchia, trasformandola in opera d’arte, con tanto di firma dell’autore: un atto creativo inscindibile dal suo contesto e scaturito da una concatenazione di rapporti fondata sull’accesso collettivo al muro del mio corridoio. Et voila l’image volée.

Ma non finisce qui. Lasciando la mia casa per trasferirmi a Milano, volevo portare con me un ricordo di quell’opera (che peraltro ho chiesto ai miei inquilini di preservare, in nome dell’arte). Non era semplice fotografarla: essendo collocata sulla parete del corridoio, lo spazio davanti era di appena un metro, in un ambiente in cui la scarna illuminazione proviene da dentro l’opera stessa! Ho chiesto perciò l’aiuto dell’amico Matteo Vitolo, fotografo provetto e soprattutto in possesso di grandangolo. Poi ho ritoccato l’immagine per risaltare i colori, sbiaditi per la poca luce necessariamente impiegata. Infine ho fatto stampare il tutto a grandezza naturale e, dopo una complicata trattativa con Martina, ho appeso il risultato vicino all’ingresso della casa nuova, in una cornice simile a quella originale: ed ecco un’opera derivata al confine tra originalità, invenzione concettuale e cultura della copia. In effetti non è una semplice copia dell’originale, perché la riproduzione, oltre a richiedere competenze diverse, ha una connotazione del tutto nuova rispetto all’opera iniziale: se prima era espressione di scoperta e meraviglia (meraviglia che il corridoio fosse dipinto di bianco e non di azzurro, soprattutto), questa comunica essenzialmente nostalgia e affetto.

Ecco, io penso che questo processo creativo rispecchi pienamente il concetto che Thomas Demand ha voluto esprimere nel suo allestimento alla Fondazione Prada. Cara Miuccia, sono sicuro che possiamo metterci d’accordo sul prezzo.

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7 comments

  1. Opera assolutamente convincente e molto molto suggestiva…Prada potrebbe darti uno spazio espositivo, così che l’ulteriore diversa collocazione arricchirebbe l’opera di suggestioni aggiuntive.
    Sono quelle poi, a fare il prezzo…

  2. Grazie Rossana, anche da parte degli altri artisti che hanno contribuito al processo creativo!
    Adesso aspettiamo che Prada batta un colpo 🙂

  3. Koolhaas è quasi nomen omen.
    La foto della foto è esattamente l’immagine in cima alla pagina. Comunque tu Muriel, che sei del ramo, potresti sponsorizzarmi!

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