Nella notte ci guidano le stelle

Raramente ho letto libri coraggiosi come Nella notte ci guidano le stelle, ultimo capitolo della trilogia di Valerio Evangelisti, Il sole dell’avvenire, dedicata alla storia dell’Emilia Romagna a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale.

La vicenda delle famiglie Minguzzi-Verardi riprende dove l’avevamo lasciata nel precedente Chi ha del ferro ha del pane, alle prime avvisaglie dello squadrismo. Nella prima parte, attraverso gli occhi di Tito Verardi, fascista della prima ora, assistiamo alla distruzione sistematica e cruenta di tutte le conquiste e di tutti i simboli del socialismo riformista. Nella seconda parte le peregrinazioni di Destino Minguzzi alla ricerca del padre ci conducono prima tra i socialisti esiliati in Francia, poi nel cuore della guerra civile spagnola. L’ultima parte è dedicata alla guerra e alla Resistenza, così come la vivono i contadini romagnoli e in particolare Soviettina Merighi, staffetta partigiana e testimone del “ritorno alla normalità” postbellica.

Arrivato alla fine del secondo volume alle soglie del ventennio fascista, Valerio avrebbe potuto imboccare la via “facile”: fascisti e antifascisti, partigiani e repubblichini, e così via. Ne sarebbe venuto fuori, probabilmente, un romanzo convenzionale ma comunque ben confezionato e sicuramente ben scritto, rassicurante al punto giusto, che avrebbe incontrato senza dubbio il favore di quasi tutti i lettori e avrebbe evitato ogni critica.

Ha scelto invece di calarsi fino in fondo nelle contraddizioni di trent’anni di storia, di sporcarsi le mani nelle divisioni, nelle responsabilità, nelle ombre più che nelle luci, conducendo i suoi personaggi sul terreno scivoloso del dubbio.

Anche la scelta dei punti di vista è significativa. La visuale del fascista Tito Verardi, che forse è il personaggio più riuscito dell’intera trilogia, una via di mezzo suggestiva tra l’Eddie Florio di Noi saremo tutto e il Robert Coates di One Big Union, ci pone in prima fila davanti alle responsabilità del partito socialista nell’ascesa delle camicie nere: nel sottovalutarne la pericolosità prima, poi nel disarmare coscientemente le masse di fronte alle loro azioni, confidando nelle istituzioni, e infine nell’incapacità di organizzare una resistenza armata all’altezza dell’attacco. Il contrasto tra la feroce, bestiale determinazione dei fascisti, e l’immobilismo dei socialisti di fronte alla distruzione di tutte le conquiste sociali del ventennio precedente, rende la lettura di quelle pagine un pugno nello stomaco di rara intensità.

Un effetto simile lo provoca, nella seconda parte del romanzo, la ricostruzione della guerra civile spagnola attraverso le vicende di Destino, spettatore inizialmente inconsapevole del tradimento della rivoluzione perpetrato dagli stalinisti in nome della teoria “delle due fasi”. Qui il racconto raccoglie il testimone di grandi autori che in passato hanno descritto queste stesse vicende: da George Orwell a Ken Loach. Ma l’attenzione di Valerio, più che all’eroismo degli anarchici o del Poum (che non è ovviamente in discussione), si concentra ancora una volta sulle responsabilità della sconfitta.

Mi pare che sia questa anche la chiave con cui viene interpretata, nella terza parte, la Resistenza: più che la vittoria contro il nazifascismo, la sconfitta della rivoluzione. E qui la scelta di Valerio è davvero controcorrente, e tanto più apprezzabile. Certo, non mancano gli episodi eroici, la resistenza civile, la solidarietà, di contro alla violenza e alla meschinità di fascisti e nazisti e collaborazionisti; non manca neppure il riconoscimento del ruolo fondamentale del partito comunista nell’organizzare le brigate partigiane. Ma al netto di tutto questo, rimane la percezione, nelle parole e nei gesti di tanti degli umili che sono protagonisti di questa storia, che l’obiettivo, la ragione per cui hanno scelto, o sono stati messi nella necessità, di rischiare tutto, non fosse semplicemente la fine della dittatura e la proclamazione di una democrazia borghese, ma molto di più. E che questo obiettivo è stato perduto per l’intervento intenzionale dei dirigenti del partito comunista.

Non è un punto di vista banale, e senz’altro è quello destinato ad attirare meno simpatie anche tra lettori “storici” di Valerio. D’altra parte, è un punto di vista che personalmente, da comunista anti-stalinista, condivido in pieno. Poco meno dieci anni fa l’organizzazione in cui sono orgoglioso di militare pubblicò un documento dal titolo La resistenza, una rivoluzione mancata (gran parte degli articoli di quella rivista si trovano qui) in cui si trovavano, in forma teorica, molte delle tesi esemplificate in pratica nel romanzo.

Io non credo che la funzione principale di un romanzo debba essere quella di insegnare qualcosa, e tantomeno che un’opera letteraria vada giudicata dal grado di utilità. Ma un’opera è tanto più interessante in quanto interagisce con il suo tempo. In questo aspetto, il punto di vista di Valerio sulla storia del Novecento è l’unico che abbia davvero un senso. Noi che, a differenza dei personaggi del romanzo, sappiamo che il Sole dell’avvenire, a distanza di settant’anni, non è ancora spuntato, non possiamo accontentarci di una celebrazione, ma abbiamo bisogno di capire perché siamo ancora qui ad aspettare l’alba, quali scelte dobbiamo compiere per diradare le nubi, o almeno da quali dobbiamo stare in guardia. Nella notte ci guidano le stelle è una lettura così intensa e preziosa non solo perché è un libro scritto bene, ma soprattutto perché è una storia che ci invita a trovare delle risposte e a metterci in gioco.

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