Expo per un giorno

Stefano Gentile, Nutrirsi del pianeta. Riprodotto con il permesso dell'autore
Stefano Gentile, Nutrirsi del pianeta. Riprodotto con il permesso dell’autore

Sono un No Expo della prima ora, per un’infinità di motivi: a partire dal tema stesso (come ha osservato efficacemente Valerio Evangelisti mesi fa), per proseguire con l’area prescelta (proprio non si sentiva la necessità di edificare una fiera di fianco a quella che c’era già), il magna magna di appalti, subappalti e subappalti dei subappalti, con conseguente giro di soldi e tintinnare di manette – e sentiremo che tintinnio dopo che la fiera sarà conclusa! – , per finire con l’ipersfruttamento di chi lavora in Expo, il sequestro dei diritti di tutti gli altri lavoratori in qualche modo interessati, in primis quelli dei trasporti, il dirottamento delle risorse per i servizi pubblici dalle esigenze collettive a quelle della fiera (il riferimento è, ad esempio, alla penosa situazione dei trasporti regionali per i pendolari).

Non mi hanno invogliato a visitare l’esposizione i racconti letti e sentiti in giro, tanto più considerato il costo del biglietto. Con Martina, più interessata di me, il compromesso era stato fin dall’inizio che non avrei speso più di 10 Euro per Expo. Quando un’amica ha proposto di cedermi due biglietti per 20 Euro totali, poche settimana fa, onestà intellettuale e curiosità hanno infine prevalso.

Non pretendo affatto di dare un parere oggettivo sulla mia esperienza. Ma adesso, quelli che prima potevano considerarsi pregiudizi, sono perlomeno giudizi a pieno titolo.

Dunque, grazie alla dritta di un amico, ci siamo avvicinati alla fiera dall’ingresso Est, quello di Roserio, prendendo il tram poche fermate prima, all’altezza della stazione di Certosa, dove avevamo parcheggiato la macchina. Si è rivelata un’ottima idea. Tanto per cominciare, abbiamo risparmiato il costo del biglietto extraurbano: che per entrare in un posto che ha un ingresso dentro la cerchia urbana pretendano, per arrivare agli altri tre ingressi, che si paghi più del doppio, è un ladrocinio e una mezza truffa. Tanto più che è l’ingresso con meno coda ai tornelli (appena 20 minuti arrivando all’orario di apertura, le 9.30), forse perché, non a caso, il meno pubblicizzato. Moltiplicate 2 Euro per il numero di ignari visitatori che hanno fatto la coda all’ingresso opposto, e vi farete un’idea del “colpo”.

Buon per noi che siamo stati sgamati, comunque. Tra tutti e sei quanti eravamo, nessuno aveva studiato un itinerario tra i vari padiglioni, quindi il primo tentativo lo abbiamo fatto un po’ a caso, puntando su uno dei più vicini: la Slovacchia. Dopo una mezzoretta di coda, all’interno abbiamo visto sculture realizzate con posate e con flauti, Martina ha provato una specie di realtà virtuale sfigata mentre io studiavo le pubblicità degli ultimi ritrovati per la coltivazione idroponica domestica (ma non c’era neppure un esemplare) e di sottofondo, proiettato su un maxischermo che avrebbe meritato miglior utilizzo, girava in loop un video musicale imbarazzante e fastidiosissimo sulle bellezze della Slovacchia: se dovesse capitare che qualche hostess del padiglione slovacco impazzisca e dia fuoco a tutto, saprò il perché.

Dopo un non entusiasmante quarto d’ora, eccoci di fronte al famigerato padiglione giapponese, che a nemmeno un’ora dall’apertura dei cancelli vantava già otto ore di coda. Meglio allora farci ospitare dal Principato di Monaco all’interno della suggestiva struttura composta da container riciclati, sperando che a differenza degli slovacchi i monegaschi avessero affrontato il tema di Expo: Nutrire il pianeta, energia per la vita. L’hanno fatto, in effetti: abbiamo così appreso che una delle principali preoccupazioni dell’industria ittica di Montecarlo e dintorni sia la crescente domanda interna di… ostriche. Un simpatico giovanotto ci ha infatti spiegato le moderne tecniche utilizzate per la coltivazione dei gustosi molluschi nelle acque del principato: un modo elegantissimo per risolvere il problema della fame del mondo.

Non c’è molto da dire sugli anonimi padiglioni di Stati Uniti e Iran, dove ho tentato invano di appropriarmi di un paio di rametti di timo per aromatizzare le braciole del giorno dopo, né su quello della Germania di cui ho visto solo la passeggiata sul tetto, dal momento che all’ingresso c’erano altre quattro ore di coda.

Più interessante invece il padiglione dell’Unione Europea. Dopo una breve attesa, simpatiche hostess ci hanno spiegato come l’UE sia simbolo e portatrice di solidarietà tra i popoli: fortunatamente non c’erano greci tra i visitatori. Il piatto forte del padiglione era però la proiezione del cortometraggio animato La spiga d’oro, che nelle intenzioni degli autori avrebbe dovuto illustrare il concetto di solidarietà tra i popoli attraverso la metafora del pane, unica pietanza presente sulle tavole di tutti i Paesi dell’Unione. Non posso non lodare la realizzazione del filmato (candidato agli Oscar 2016, ci ha spiegato all’uscita un’altra graziosa hostess): bei disegni, coinvolgente la proiezione “dinamica” tipo Gardaland. Ho qualche perplessità sulla storia invece: riassumendo, c’è una giovane brillante ricercatrice che viene intrappolata con l’inganno dalla nonna panettiera in un villaggio sperduto, probabilmente in Vandea, dove dovrà gestire al posto suo il panificio; qui la ragazza s’incontra e si scontra con Alex, un contadino del luogo: lui vince l’iniziale diffidenza di lei aiutandola a salvare il villaggio da un nubifragio, e lei rinunzia alla sua carriera di scienziata per sposarlo e rimanere nel villaggio a fare la moglie e la madre…

Dopo una forzatamente lunga pausa mangereccia tra Africa e India, abbiamo puntato il cluster del caffè alla ricerca di un caffè. Non l’abbiamo trovato. In compenso, nello stanzone di Timor Est era esposta una vera chicca, la prima della giornata: esemplari dei pregiatissimi chicchi di caffè cacati dalle scimmie (che non sono scimmie, credo siano marsupiali o giù di lì), con tanto di stronzo di scimmia (che non è una scimmia) accuratamente custodito in una teca. Purtroppo non era in vendita. Dico il caffè, non lo stronzo.

Tra una coda e l’altra, è trascorso anche il pomeriggio. Al tramonto eravamo nel padiglione del Regno Unito, il primo davvero suggestivo, tra quelli accessibili, con il suo “alveare” e, soprattutto, le vere birre britanniche nel finto pub sulla terrazza. Non chiarissima la declinazione del tema nutrire il pianeta: miele e bitter ale?

Per trovare un Paese che avesse centrato il tema abbiamo dovuto aspettare l’ultimo padiglione della giornata, quello della Corea del Sud. Durante la breve coda, hostess gentili distribuivano depliant con la descrizione dei piatti tradizionali e dei principi concettuali dell’alimentazione coreana, basati sull’equilibrio dei valori nutrizionali e metodi di conservazione naturali: come a dire “Ecco, questa è la nostra proposta per un’alimentazione universale e sostenibile“. Questi stessi concetti erano poi spiegati all’interno attraverso… robottoni con schermi rotanti e altre figate elettroniche. Infine, all’uscita, oltre al ristorante e al bookshop, una pratica guida ai ristoranti coreani a Milano, Venezia, Firenze e Roma. Semplicemente perfetto.

Siamo usciti giusto in tempo per concludere la nostra giornata con lo spettacolo del discusso Albero della Vita. Che dire? È un affare gigante con luci e musica: non sarà una delle Sette Meraviglie, ma a Gardaland farebbe la sua figura. Ho letto che lo reclamano a Brescia, dove è stato costruito: di certo non potrà peggiorare quell’orribile città.

E con questo pensiero termina il racconto della mia giornata a Expo. Adesso sono un No Expo più consapevole.

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2 comments

  1. Et voilà…ecco spiegato, con garbo e ironia, l’ennesimo scherzetto di Halloween, nutrire il pianeta by Mc Donald Coca Cola & co.
    Complimenti, scritto benissimo!
    Ester

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