Quando arrivano i nostri?

Arrivano i nostri

Agosto, sito mio ti riconosco. A luglio invece ti ho trascurato, anche se di cose da scrivere ce ne sarebbero state, dalle vicende greche agli ultimi “scandali” paracalcistici: un po’ ho avuto altro per la testa, un po’ è capitato così, succede. Tra l’altro che ho avuto per la testa naturalmente c’è il lavoro, da cui mi sono disimpegnato, finalmente, ieri. L’ultima settimana in studio è stata segnata da un episodio piuttosto spiacevole: dopo oltre due mesi di attesa, è arrivata la decisione di un giudice che ha respinto un ricorso per l’impugnazione di un licenziamento. Si trattava della cosiddetta “fase sommaria” della procedura introdotta nel 2012 dalla riforma Fornero. Sapevamo che non era una causa semplice, per varie ragioni, ma la motivazione è discutibile e potrebbe valere la pena impugnare la sentenza e giocarcela nei successivi gradi di giudizio. Peccato che la seconda fase del procedimento venga decisa dallo stesso giudice della fase sommaria, cioè lo stesso che ci ha dato torto e che difficilmente cambierà idea a distanza di un paio di mesi. Le vere chance di un esito differente sono in appello, ma per arrivarci bisogna necessariamente passare da queste forche caudine. Così la lavoratrice, che in fase sommaria è stata condannata a rimborsare all’azienda 600€ di spese legali, ha deciso di rinunziare all’impugnazione, spaventata dal rischio di subire un ulteriore salasso prima ancora che la sua vicenda venga esaminata da giudici diversi dal primo.

Non è un caso infrequente. Le proteste di molti legali contro questa iniqua limitazione dei diritti di difesa si sono scontrate con la Corte di Cassazione, che pochi mesi fa ha confermato questa modalità. C’è chi sostiene che tutto ciò sia totalmente illogico, ma io non credo sia così. La logica è precisamente quella di scoraggiare le impugnazioni e rendere più difficile tutelare i propri diritti. Combinata con la prassi recente di condannare il lavoratore perdente al pagamento delle spese legali di controparte, l’effetto è davvero devastante.

Questo era lo stile dei governi precedenti, da Berlusconi a Letta passando per Monti, che con il falso argomento di “equiparare” la posizione del datore di lavoro con quella del lavoratore hanno approfondito disparità e ingiustizie: non è giusto mettere sullo stesso piano processuale padroni e lavoratori, dal momento che non sono affatto sullo stesso piano sostanziale. In soldoni (perdonate il gioco di parole) un’azienda può permettersi di perdere 2000 Euro molto più facilmente di un suo dipendente, specie quando l’azienda è una multinazionale e il dipendente un 6° livello del Commercio.

Va detto che il governo Renzi ha un approccio differente alle politiche del lavoro, e infatti uno dei rari meriti del Jobs Act è l’abolizione della nefasta procedura Fornero, per i licenziati che erano stati assunti con i contratti a tutele crescenti. Non servono “sgami” processuali per rendere più difficile le impugnazioni, quando di fatto a impugnare il licenziamento si ottengono ben che vada quattro lire. Invece di limitarsi a rendere complicato tutelare i propri diritti, è molto più semplice e diretto eliminarli alla radice, questi diritti.

Con questa premessa, diamo un’occhiata in che tipo di ingiustizie mi sono imbattuto in questo 2014-2015 che ho archiviato ieri.

Un anno fa avevo scritto che le controversie sui contratti precari sarebbero probabilmente diminuite, una volta che la riforma Poletti sui contratti a termine fosse entrata a regime. La facile profezia si è avverata: erano circa un quarto delle pratiche fino all’anno scorso, sono state meno di un quinto nell’ultimo anno, quasi tutte legate a contratti stipulati poco prima dell’entrata in vigore del Jobs Act.

Come già negli ultimi anni, parte consistente (ma leggermente meno di dodici mesi fa, circa un terzo delle controversie) riguardano retribuzioni non pagate o aziende, specie cooperative, che pagano meno di quanto dovrebbero. Sono paradossalmente le cause dall’esito più incerto, non tanto perché il diritto sia in dubbio, quanto perché è davvero troppo facile per i datori di lavoro non pagare, a dispetto di sentenze e ingiunzioni. Un fenomeno ormai tipico, dopo che il governo Letta ha fortemente limitato la responsabilità dei committenti per i debiti degli appaltatori nei confronti dei loro dipendenti, è quello delle cooperative appaltatrici o subappaltatrici che dichiarano di non poter pagare perché a loro volta non vengono pagati dai committenti, i quali a loro volta non pagano gli appaltatori per presunte violazioni del contratto di appalto.

Circa lo stesso numero dell’anno precedente sono le cause che riguardano le mansioni o l’orario di lavoro: ecco perché il Jobs Act prevede la facoltà di demansionare più o meno liberamente i dipendenti, e non tarderanno interventi sulla flessibilità dell’orario.

E a proposito di Jobs Act, chissà che non sia un effetto del nuovo contratto a tutele crescenti l’aumento del contenzioso sui licenziamenti: ci si libera dei vecchi contratti per sostituirli con nuove assunzioni che sono sì a tempo indeterminato, ma senza sanzioni significative in caso di licenziamento illegittimo. Ed ecco forse perché, nonostante tutti gli incenvitivi contributivi, la disoccupazione dall’entrata in vigore della riforma è rimasta sostanzialmente stabile.

Insomma, la sensazione dal mio piccolo osservatorio è di essere assediato dalle ingiustizie. Non vedo l’ora che arrivino i nostri.

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