Storie balcaniche: il Dittator Fanfogna (#TifiamoScaramouche)

Una lapide nel forte del Camerlengo ricorda altre "imprese" degli italiani a Trogir, 22 anni dopo il tentativo di Fanfogna
Una lapide nel forte del Camerlengo ricorda altre “imprese” degli italiani a Trogir, 22 anni dopo il tentativo di Fanfogna

Lo scorso anno avevo cominciato a trascrivere quassù alcuni racconti in cui mi ero imbattuto durante un magnifico viaggio in auto tra Croazia e Bosnia. Un primo racconto parlava dell’isola di Veliki Brijun, al largo delle coste istriane, buen retiro del Presidente Tito; il secondo era ambientato sempre su un’isola ma al largo della Dalmazia settentrionale, Rab o Arbe, già sede dell’omonimo campo di concentramento italiano durante l’occupazione e la guerra.

Ne avevo in serbo un terzo, ma quando è stata lanciata la campagna #TifiamoScaramouche, a settembre dell’anno scorso, ho subito pensato che sarebbe stato perfetto per ambientarci la storia del personaggio che da L’Armata dei Sonnambuli è stato trasportato, lustro per lustro, fino ai giorni nostri. Nel frattempo si è aggiunto all’impresa anche il buon Alessandro Pirovano, e ne è venuto fuori un racconto a quattro mani che ora compare nel quarto e ultimo volume della raccolta, finalmente pubblicata e scaricabile da qui.

Di seguito trovate l’incipit, se vi interessa sapere come va avanti, cliccate qui.

 

Dittator Fanfogna

Lombardia e Dalmacija

1915-1919

 

1.

 

«No, no e no, metti giù quelle manacce, puzzone d’un italiano! La frutta è per il Signor Conte!».

«Ma lo sai che è ben altro il frutto che vorrei coglie…».

Non fece in tempo a pronunciare l’ultima sillaba che fu investito da un ceffone a mano aperta. Zarja riprese il cesto e lo superò affettando indignazione.

Leo viveva tra la servitù di Palazzo Fanfogna dall’inizio di quell’anno 1919. Subito dopo l’armistizio si era tolto qualche sassolino dalle scarpe e così, a Trieste, aveva scambiato la divisa degli Arditi con abiti civili e un cappotto, e aveva cominciato il suo pellegrinaggio lungo la costa orientale dell’Adriatico. In Italia non ci poteva restare: il Vendicatore delle Trincee aveva troppi nemici e i peggiori stavano proprio a Mortara.

I confini tra l’Italia e il Regno dei serbi, croati e sloveni – che i più chiamavano Jugoslavia – parevano però spostarsi più velocemente di lui. Parenzo, Rovigno, Pola: un giorno inalberavano il vessillo dei Savoia e il giorno successivo quello di Pietro I, quando non entrambi.

Soltanto dopo Sebenico non aveva più visto bandiere tricolori e perciò si era sistemato nella prima cittadina che aveva incontrato lungo la costa, un villaggio grazioso di un migliaio di abitanti che i croati chiamavano Trogir e gli italiani, relativamente numerosi, Traù. Lì, però, ogni tentativo di ottenere un lavoro in una delle tante botteghe gestite da croati si era rivelato inutile, finché non si era rassegnato a chiedere un impiego al conte Fanfogna, che l’aveva assunto come factotum. Non era entusiasta di servire un nobile che per giunta non faceva mistero delle sue idee irredentiste, ma se non altro aveva di che mangiare e dormire, e perfino qualche soldo per la taverna.

Dopo un ultimo sguardo al sedere di Zarja, Leo si fermò sull’uscio del salone, dove il conte Giovanni Antonio III Fanfogna aveva radunato per pranzo tutto il notabilato italiano della città. Il pasto volgeva al termine, e dalla stanza proveniva il rumore festoso dei brindisi: «Al Vate D’Annunzio!», «All’impresa di Fiume!», «Ai legionari!».

Al cenno del padrone il ragazzo si avvicinò all’allegra tavolata e si esibì in un goffo inchino: «Mi avete fatto chiamare, signor Conte».

«Infatti. Voglio la be’lina e i cavalli p’onti t’a un’o’a».

«Certamente signor Conte, vado ad avvisare lo stalliere».

«Se avessi voluto avvisa’e lo stallie’e, av’ei convocato lui e non te, sciocco! P’ovvedi pe’sonalmente a tutto, mi accompagne’ai tu. Vai».

Senza più degnarlo di uno sguardo, Fanfogna si volse nuovamente verso i suoi commensali.

Segue

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