Di carta e di celluloide – novembre 2014

Chi ha del ferro ha del pane Hunger Games

No, non ce la faccio adesso a scrivere della bozza di decreto legislativo sul contratto a tutele crescenti: portate pazienza, è Natale. Mi pare molto più appropriato parlare di libri e di film, idee per regali tardivi o per passare del buon tempo durante le feste.

LIBRI

Valerio Evangelisti, Il collare di fuoco * * * *

Valerio è senz’altro il mio narratore preferito, per la capacità straordinaria di dipingere con poche pennellate affreschi di enorme complessità. Nel primo romanzo di questo ciclo tratteggia trent’anni di storia del Messico, attraverso le vicende di un pugno di personaggi che rappresentano con efficacia le forze che spinsero il Paese, tra contraddizioni e giravolte, dall’orbita europea a quella statunitense. Come sempre, la Storia non è fine a se stessa ma parla anche al presente, toccando temi sensibili: democrazia formale e sostanziale, coscienza e lotta di classe. Eppure i personaggi non sono sagome di cartone, mere funzioni, ma persone a tutto tondo, di cui è affascinante e coinvolgente conoscere le vicende. A breve, bisognerà completare il ciclo.

Zerocalcare, Dimentica il mio nome * * * * *

Zerocalcare riesce ancora una volta a toccare tutte le corde giuste raccontando per immagini e metafore la vita avventurosa e difficile di una nonna che non c’è più. La sua miglior qualità è riuscire a narrare in modo divertente vicende struggenti e cariche di tenerezza: questa volta ha superato se stesso con un omaggio meraviglioso.

Valerio Evangelisti, Il sole dell’avvenire: chi ha del ferro ha del pane

Doppio Valerio nel mese di novembre: non potevo attendere per leggere il secondo volume del ciclo Il sole dell’avvenire. Ho già scritto del talento dell’autore nel rappresentare con semplicità, ma senza trascurare affatto le complessità, intere epoche storiche: qui siamo nei primi vent’anni del Novecento, tra Emilia e Romagna, seguendo le tracce dei personaggi già incontrati nel primo romanzo e di nuove conoscenze. Colpisce in un libro che tocca temi tanto “politici” la profonda umanità: i personaggi sono prima di tutto persone, persone vere nelle cui vicende non si può non rimanere coinvolti. È per questo che il racconto della storia del Novecento, tutto svolto dalla prospettiva dei personaggi, dunque dal basso, è tra i più credibili, che abbia letto, perché non è semplicemente una sequenza di fatti storici giustapposti, bensì lo sviluppo naturale di scelte e di sensibilità individuali e collettive. L’impresa è tanto più notevole considerato che il periodo affrontato è tra i più complessi della nostra storia, ed è straordinaria soprattutto nel finale, per come riesce a spiegare l’avvento del fascismo. Giustamente Valerio è orgoglioso di quest’opera: forse la migliore che abbia mai scritto.

FILM

Isao Takahata, La storia della principessa splendente * * *

Taglio con l’accetta (mi pare appropriato, lo fa anche il padre della protagonista, con le canne di bambù): la fiaba raccontata in questo film dello Studio Ghibli si può sintetizzare con la morale i soldi non danno la felicità. La minuscola Principessa viene trovata dentro una canna di bambù da un contadino, che la porta a casa e con la moglie le fa da padre nella sua crescita accelerata tra i ragazzini del villaggio; con l’oro letteralmente piovuto dal cielo vuole assicurarle un futuro di quella che crede possa essere felicità nella capitale, ma arrivata nel nuovo sontuoso palazzo Principessa si rende presto conto che era più felice prima, tra le cose e le persone semplici del villaggio di contadini. Giusto e nobile messaggio, la storia è tenera e commovente, i disegni bellissimi e la tecnica particolare. Però boh, forse è tutto un po’ troppo semplice, e a me non è mai scattato un oh di meraviglia. A Martina invece sì.

Christopher Nolan, Interstellar * * * * *

Di Interstellar, il film più atteso dell’anno a giudicare dalle sale piene in prenotazione per giorni dopo la sua uscita, ho letto moltissimi commenti intelligenti e, curiosamente, condivisibili: sui riferimenti a 2001 Odissea nello spazio, sulla metafora dell’amor che move il sole e l’altre stelle, sul trattamento narrativo delle distorsioni temporali, etc.. Questa concordanza nelle interpretazioni, più unica che rara, mi conduce a pensare che probabilmente ha ragione Martina quando sostiene che alla fine sia un film eccessivamente “semplice”, specie se paragonato alla sovrastruttura mastodontica che lo contiene, da un lato, e ai precedenti di Nolan (MementoInception su tutti) dall’altro: della serie, se l’hanno capito tutti, vuol dire che era troppo facile. Può darsi in effetti, e del resto Nolan ha già dimostrato di saper essere anche un furbo piacione; del resto l’idea di ritornare al modello di Kubrick è ambiziosa e non poteva riuscire completamente: infatti alla fine il film è una versione for dummies di 2001. Ma anche così Interstellar rimane secondo me il miglior film di fantascienza dai tempi di Blade Runner, grazie al modo in cui rappresenta il nostro futuro (in cui la decrescita è vista come decadenza, non come prospettiva auspicabile), a una struttura narrativa affascinante che utilizza in modo funzionale la relatività spazio-temporale (e l’interessante parallelo tra tempo del cinema e tempo dello spazio è la prosecuzione del suo discorso affascinante  sul linguaggio cinematografico), alla rara capacità di Nolan di raccontare tutto un mondo senza bisogno di spiegoni. Ci sono buchi di sceneggiatura e imprecisioni scientifiche? Probabilmente sì, ma io glieli perdono senza esitazioni.

Francis Lawrence, Hunger Games: il canto della rivolta – parte I * * * *

Prosegue la saga di Katniss Everdeen con la prima parte dell’ultimo capitolo. Ho già scritto che Hunger Games è davvero una bella storia per ragazzi, e il giudizio non cambia dopo questo terzo film, in cui l’insurrezione in procinto di esplodere alla fine del precedente entra nel vivo. Insomma, ogni racconto in cui gli oppressi si ribellano agli oppressori merita simpatia e almeno 4 stelline, ma per essere onesti va detto che il terzo film è oggettivamente più fiacco dei primi due: un po’ per l’appiattimento di alcuni protagonisti, specialmente Katniss, le cui motivazioni appaiono più elementari, ma allo stesso tempo mutano un po’ troppo repentinamente; ma soprattutto per l’infelice scelta di dividere l’ultimo romanzo in due film: abitudine ormai consolidata nelle trasposizioni di saghe letterarie, ma spesso nefasta.

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4 comments

  1. Non vedo l’ora di sentire che penserai del finale di “Hunger Games”. Semi-spoiler: le rivoluzioni sono anche sangue e orrore. Orrore vero. Intanto sono riusciti abbastanza a rendere un aspetto che amo molto dei libri: l’idea che essere oppressi non è romantico e non ti rende una persona buona – al limite il contrario. In questo la crisi (fondamentalmente psichiatrica) di Katniss è significativa: la guerra, anche quella di classe, non è bella. Magari necessaria. Non bella.

    Mi rendo conto che è facile rigirarlo come “contro i capitalisti cattivi ci sono i comunisti che sono cattivi anche loro, e forse peggio,” eccetera. Spero che il film non lo faccia; il fascino e la recitazione sfumata di Julianne Moore “Grande Sorella” dovrebbe aiutare. Io lo vedo come un problema morale tanto quanto politico: l’oppressione ti rende capace del peggio pur di sopravvivere, ma a questo punto sei assolto (con un umiliante “poveretto, non poteva altro”) o sei responsabile (nonostante le alternative disumane)? Aggiungi il pessimismo sulla natura umana che cade nella venerazione degli eroi e nello spin della propaganda sia nel lusso del Capitol che nello spartano Distretto 13, e con meccanismi sovrapponibili, perdendo di vista la creazione di una gerarchia di privilegio dietro le quinte (Plutarch Heavensbee è un personaggio chiave, ed è bellissimo che abbia il volto affabile di Philip Seymour Hoffman). Il che non è un qualunquista “sono tutti uguali,” perché (di nuovo) le colpe del Capitol sono indimenticabili e imperdonabili. Almeno: nei libri. Speriamo che nel film regga…

    Per inciso: sono la sola ad avere intravisto “La corazzata Potëmkin” nella scena dell’attacco alla diga? E “La corazzata Potëmkin” non era, tecnicamente, un film di propaganda? (Lo so che è una delle cose più belle del mondo. Se inizio a parlare di quanto sia bella non si finisce più, quindi chiudo.)

  2. Non avevo pensato a “La corazzata Potëmkin” (bisognerebbe intendersi sul concetto di “film di propaganda”: se lo è quello, allora lo sono la maggior parte dei kolossal americani).
    Quanto al resto, in generale, non credo che il punto sia se la guerra sia bella o brutta – possiamo davvero escludere che ci sia chi la trova bella? – ma se sia giusta o meno: e questo dipende dalle motivazioni collettive. Perciò la guerra degli oppressi contro gli oppressori, al di là delle dinamiche di propaganda, di ricerca degli “eroi”, etc., è comunque giusta.

  3. OK, rimandiamo la parte della discussione su “Hunger Games” all’ultimo capitolo…

    Sull’idea di “film di propaganda,” invece, mi sembra che si possa fare un discorso interessante. Per quanto mi riguarda, ci sono tre cose da considerare: primo, non è un giudizio di merito; secondo, se c’è una misura è su uno spettro, non un sì/no; terzo, è una considerazione largamente legata alla produzione del film.

    Per esempio, sullo spettro metterei a un capo “Ottobre” di Eisenstein (prodotto da un Partito-Stato per glorificare chiaramente il proprio programma davanti al Paese), all’altro “Independence Day” (prodotto per fare soldi, usa una serie di riflessi pavloviani legati a simboli patriottici, ma se al posto di “star and stripes” ci fosse stato “tette di Megan Fox” il cagnolino salivava il pubblico USA lanciava il popcorn in segno di gioia allo stesso modo). In mezzo metterei “Casablanca,” “Aleksandr Nevski” e “The Hunger Games” – in quest’ordine – il messaggio politico in “Casablanca” è molto più dichiarato (e urlato) che in “Aleksandr Nevski.”

    (NB: Non vedo “Independence Day” da quando è uscito. Ho lanciato i popcorn. Non mi pento, e lo spiego sotto.)

    Gli esempi mostrano anche come il valore “artistico” del film sia assolutamente irrilevante nel giudizio. Secondo me, fare un buon film di propaganda (o con una forte componente di propaganda) è più difficile perché il rischio di trattare il pubblico con paternalismo è più alto che per altri generi; ma non è affatto impossibile. E a proposito di “generi”: non sono compartimenti stagni. Ci sono film d’essai di fantascienza, melodrammi romantici di propaganda (“Casablanca,” appunto).

    Per finire: ogni film è prodotto della cultura da cui viene, per similitudine o per contrasto. L’unica via è studiare il contesto e fare la tara.

    Poi, che diamine: all’esplosione su “star and stripes” io il popcorn lo lancio. Perché ammiro l’efficienza della produzione, mentre spero che possa essere usata anche da qualcuno che fa qualcosa di meglio. Perché mi concedo “guilty pleasures,” e preferisco vedere un film politicamente mediocre ma ben fatto e leggere un saggio che mi dà idee per una lotta, piuttosto che “dover” vedere un brutto film con le cui politiche concordo. Sarà che mi sono spupazzata anni di pessime commedie romantiche lesbiche perché “sosteniamo le sorelle”… (Tu non hai idea, Alessandro. Tu non hai idea. L’obbligatoria scena in cucina perché il cibo è una metafora così brillante. Tutte. Le. Volte. Bonus, la battuta sulle lesbiche vegetariane. Roba che consideri le “conversion therapies” fondamentaliste.)

  4. Cara Marta,
    mi sento in colpa per aver rimandato la risposta a questo commento (e a quell’altro più recente, temo non riuscirò a metterle in fila tutte e due), ma eccomi qui.
    Concordo totalmente sull’impostazione della questione, “a spettro”, e sul diritto anche dello spettatore impegnato e progressista a lanciare i popcorn anche di fronte al film dal messaggio più becero, se capita (e può capitare, ma solo al cinema secondo me, per via del contesto, delle dimensioni, degli effetti, della folla). Ad esempio, io mi sono entusiasmato quando ho visto al cinema 300 (il primo: la porcheria uscita quest’anno invece non entusiasmerebbe neppure un allevatore del Texas). Poi ho letto questo:
    http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/allegoria_e_guerra_in_300.htm
    Ne condivido sostanzialmente ogni virgola, e mi pare che dica molto sulla questione.
    Dove concordo meno con la tua tesi, è quando citi Indipendence Day, che anch’io vidi (solo) al cinema ma che ricordo abbastanza, per sostenere che lì l’obiettivo non è la propaganda, ma far soldi, tanto che lo slancio patriottico si poteva serenamente sostituire con scene più prosaiche per raggiungere lo stesso effetto di coinvolgimento.
    Però la produzione ha scelto lo slancio patriottico, e mi pare ingenuo pensare che sia stato per caso. Così come forse è ingenuo pensare che ci sia poi questa grande differenza tra l’obiettivo di far soldi e quello di veicolare un determinato messaggio politico (che poi, volendo, è simile a quello di 300, con gli alieni al posto dei persiani). Mi pare più verosimile pensare che il sistema Hollywood abbia sostanzialmente sposato il sistema USA, e di fatto è appiattito, *specialmente per quanto riguarda i blockbuster*, sulla propaganda di quel sistema.
    D’altra parte, credo che proprio un film apparentemente “neutro”, o quantomeno cazzaro, come Indipendence Day sia uno strumento di propaganda infinitamente più efficace di un film d’autore molto più esplicito come American Sniper (l’ho visto ieri: l’ho trovato orribile sotto ogni punto di vista), che infatti mi pare (se interpreto bene queste statistiche, sempre che siano affidabili: http://www.boxofficemojo.com/movies/?id=americansniper.htm) abbia avuto più successo di pubblico in Europa che negli USA.
    Infine, certamente: soggettivamente preferisco anch’io vedere un bel film di cui non condivido l’idea politica di fondo, che vedere un brutto film, qualunque messaggio porti. Ma difficilmente, per quante esplosioni ci siano, riguarderò volentieri un film che, pensandoci su, non mi dice nulla di interessante.

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