Tutele calanti

Lavoro
Foto di Martina Grusovin

 

Partiamo da un presupposto. Tutta la discussione sullo smantellamento dell’articolo 18 ha come unico fondamento certo, oggi, il testo del progetto di legge delega che sarà sottoposto nei prossimi giorni alla Camera e successivamente al Senato. Il testo originariamente approvato dal Senato era letteralmente questo:

previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio

Il chiacchieratissimo emendamento approvato dalla Commissione Lavoro della Camera aggiunge alla formulazione originaria le seguenti parole:

escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento.

Tutto qui. Nonostante si leggano su tutti i quotidiani approfondite disamine sul “doppio binario” (spontaneo o contenzioso) con tanto di quantificazione esatta del risarcimento nelle varie ipotesi, al momento si tratta di pure fantasie: il meccanismo della “legge delega” scelto dal governo prevede in questa fase che si approvino soltanto dei “principi generali”, che sarà il governo stesso ad applicare in decreti legislativi sottratti al controllo del Parlamento.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo affermare con certezza alcune cose.

Punto primo: mente spudoratamente chiunque sostenga che con questo emendamento il Jobs Act sia “migliorato”: quando scrivo “chiunque” intendo precisamente personaggi della presunta minoranza del PD come Cesare Damiano, oltre alla dirigenza della CISL che difende così la sua scelta di sabotare lo sciopero generale. Nella formulazione originaria, a voler ben vedere, non si parlava proprio di abolizione della reintegrazione per tutti i licenziamenti economici illegittimi – anche se ovviamente era lì che si andava a parare, fin da quando anni fa è saltata fuori l’idea del contratto a tutele crescenti. Adesso è previsto nero su bianco, con la necessaria (perché altrimenti palesemente incostituzionale) eccezione dei licenziamenti discriminatori e con la vaga estensione della possibilità di reintegra ad ancor più vaghe “specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare“, che verosimilmente saranno così specifiche da risultare praticamente inesistenti. Dunque, l’emendamento non migliora proprio un bel niente, ha solo lo scopo di spiegare a chi ancora avesse dubbi che l’obiettivo della riforma è proprio abolire di fatto l’articolo 18.

Punto secondo: quali che saranno i dettagli applicativi, il principio introdotto dalla legge delega è destinato a distruggere ogni tutela efficace dei lavoratori contro l’arbitrio dei propri padroni. Già oggi questa tutela scarseggia: quando un licenziamento economico è riconosciuto ingiustificato, il massimo che un dipendente possa ottenere sono 24 mesi di stipendio – ma in media i risarcimenti viaggiano su cifre molto più contenute perché l’indennità riconosciuta dal giudice ha un minimo di 12 mensilità e la quantificazione dipende (già adesso) dall’anzianità di servizio, dalle dimensioni dell’impresa e da altre circostanze contingenti: siamo intorno ai 12 mesi di stipendio, ma spesso anche meno nei casi in cui si è indotti a trovare un accordo conciliativo.

Nel sistema introdotto dalla riforma, un dipendente potrà essere licenziato letteralmente senza alcuna ragione, purché il datore di lavoro abbia l’accortezza di inventarsi una qualsiasi motivazione di tipo economico, anche del tutto infondata, maturando solo il diritto a pochi mesi di stipendio, in funzione questa volta unicamente dell’anzianità di servizio. Secondo l’opinione più diffusa, un mese per ogni anno di anzianità, ma anche se fosse il doppio (e non lo sarà) non cambierebbe la sostanza.

La riforma si applicherà “solo” alle nuove assunzioni, ma è evidente che nel giro di pochi anni la platea di lavoratori soggetti al nuovo regime sorpasserà quella degli “anziani”, che hanno pur sempre una tutela mutilata dalla Fornero. Questo significa che tutte le imprese avranno sempre convenienza a licenziare un lavoratore prima che mandarlo via diventi troppo costoso, per rimpiazzarlo con un altro a tutela quasi zero: di fatto, non c’è alcun motivo per sperare che la durata media dei rapporti di lavoro “a tempo indeterminato” non si ridurrà a pochi anni.

A livello più generale, significa anche che le tanto sbandierate imprese straniere avranno tutto l’interesse ad aprire in Italia, carpire finanziamenti pubblici per qualche anno e poi andarsene lasciando il deserto alle proprie spalle in cambio di poche monete: i lavoratori della Merck di Pavia ne sanno qualcosa già adesso, figuriamoci poi. Invece di essere l’Italia a ricevere investimenti dall’estero, saranno gli imprenditori esteri a ricevere fondi e know how a costo zero dall’Italia e dai lavoratori italiani.

Si può ben dire allora che questa riforma contribuisca più di ogni altra a rubare il futuro alla nostra generazione e a quelle che verranno: impedirla in ogni modo è una di quelle cause per cui vale la pena combattere. Lo sciopero generale, rinviato al 12 dicembre per ammansire la UIL (o è la UIL che ha ammansito la CGIL?), rischia di consumarsi dopo l’approvazione finale della legge al Senato, e di rivelarsi così un’arma molto spuntata: bisogna muoversi ora!

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