Uomini o mostri

Ho scritto questo post, una riflessione sul romanzo di Jonathan Littell Le Benevole, qualche settimana fa. In queste ore prevale su tutto l’angoscia per la sorte di un’amica, vittima di un tragico, assurdo incidente; ma sotto cova lo stesso disagio che ho provato nella lettura: quello di riconoscere perfino nei criminali colpevoli di questa tragedia, così come nei nazisti responsabili dell’Olocausto, degli esseri umani come noi, nonostante la tentazione di pensarli qualcosa di radicalmente diverso. La verità è che tutti siamo capaci di volere e di compiere il male (e lo confermano molti commenti letti quest’oggi, soprattutto da chi Elena non l’ha mai conosciuta): sono le nostre scelte, non la nostra natura a fare la differenza, a consentirci di essere degli esseri umani migliori.

Forza Elena, ti siamo tutti vicini.

Ricordo come fosse ieri quando, da matricola in Collegio, partecipai alla mia prima (e unica: venne abolita dopo quella volta) ghisleriatio: in buona sostanza, si trattava di una rissa organizzata in modo pseudo-militare contro il collegio rivale, che si teneva nella piazza antistante il nostro. Lo scopo di entrambe le fazioni era catturare uno o più nemici, trascinarli nel proprio Collegio e “torturarli” tutta la notte. Al termine della battaglia, ci ritrovammo in tanti raggruppati nell’androne di ingresso del Collegio; per terra, semisepolto tra i “soldati” accalcati, stava un ragazzo: un borromaico! – gridò qualcuno, e il grido fu ripreso da altri. Da dietro tutti spingevano per raggiungere la preda, fargliela pagare. Finché qualcuno più vicino alzò la voce per avvisare Fermi! È il Garfo! (il Garfo era uno dei nostri). Solo in quel momento, tutti, ci rendemmo conto che ci eravamo trasformati in bestie, che l’istinto primordiale del branco e della sopraffazione, liberato dall’adrenalina dello scontro fisico con i rivali, aveva per un momento preso il sopravvento. Quell’episodio mi è rimasto impresso a fuoco nella memoria, e rievocandolo ancora me ne vergogno: il Garfo è la mia Erinni personale.

Ma a parte la vergogna, trovo che sia un episodio estremamente istruttivo sulla natura umana, sulla nostra capacità non solo di accettare, ma di fare e di volere il male.

Non c’è modo più drastico di affrontare questo tema che a partire dalla descrizione di ciò che generalmente consideriamo il Male Assoluto: l’Olocausto. Jonathan Littell nel suo Le benevole fa un passo ulteriore: affida questa descrizione a un fittizio ufficiale nazista, Maximilian Aue, che nelle sue memorie di molti anni dopo non si limita a raccontare, ma spiega come sia stato possibile. La domanda è cruciale: come è stato possibile che un’intera nazione di decine di milioni di persone abbia ignorato nel migliore dei casi, accettato, voluto e messo in atto in tutti gli altri, il genocidio degli ebrei e delle altre minoranze? Siamo abituati a risponderci che sia stata una follia collettiva, ma non è una risposta soddisfacente, credo, e la ricostruzione di Aue sembra portare in una direzione opposta: non è stata la follia a consentire e provocare lo sterminio, ma semmai lo sterminio – o meglio la fredda logica con cui lo sterminio è stato pianificato ed eseguito – a rendere folli coloro, ed erano comunque molti, che a vario titolo vi erano coinvolti. La questione ne porta in sé un’altra, estremamente inquietante: se fossimo stati noi, ciascuno di noi, tedeschi nella Germania degli anni Trenta, ci saremmo comportati diversamente?

Come tutti i bravi autori, anche Littell non dà una risposta, ma fornisce una serie di indicazioni, anche contrastanti. Da un lato ci mostra in modo esplicito che la grande maggioranza delle persone coinvolte, anche ad alti livelli, nella titanica struttura industriale dell’Olocausto, se fossero state calate in altre circostanze, in altre epoche e in altri luoghi, sarebbero state persone come noi. Il che in effetti significa che noi avremmo potuto essere come loro, in quelle circostanze. E del resto quanto altro c’è di noi, se togliamo l’educazione, l’ambiente, la cultura, il mondo esterno in cui siamo immersi? Niente, secondo alcuni. Ma ci sono personaggi, nel romanzo, che anche in quelle circostanze estreme, perfino al fronte, persino da ufficiali dell’esercito tedesco, mantengono la capacità di critica e di scelta. E se c’è scelta, c’è di conseguenza responsabilità. Il che ovviamente rende molto più severo il giudizio sulle azioni che compiamo, un giudizio destinato ad accompagnarci sempre, come un demone, le Benevole del titolo.

Per questo, Garfo (ma qual era poi il tuo “errore anagrafico”?), nell’assai improbabile caso che tu legga queste righe, ti prego di perdonarmi.

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