Discriminazione a Busto Arsizio

Sembra il titolo di un pessimo exploitation movie in salsa padana (tipo questo), invece è in sintesi una decisione del giudice del lavoro di Busto: ve la racconto perché mi sembra interessante.

I fatti. Il signor L. aveva lavorato per l’azienda R., che si occupa di rifornimento di aeroplani, tra il 2010 e il 2011 con alcuni contratti a termine. Nel marzo 2013, dopo che il lavoratore aveva impugnato i contratti per genericità della causale, una prima sentenza del Tribunale di Busto Arsizio dichiarò illegittimi i contratti e condannò R. a ricostituire immediatamente il rapporto di lavoro, a tempo indeterminato, e a pagare al signor L. un (modesto) risarcimento del danno.

Lungi dall’eseguire la sentenza, R. si guarda bene dal richiamare in servizio il lavoratore, senza neppure fingere di riaprire la sua posizione previdenziale e assicurativa. In compenso, neppure due mesi dopo, e senza che mai il signor L. abbia rimesso piede in azienda, gli spedisce una lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, motivandola con l’avvenuta “soppressione del posto di lavoro”: motivazione già a prima vista bizzarra, se si considera che il lavoro del signor L., operaio addetto al rifornimento degli aerei, era quello della larga maggioranza dei dipendenti di R., ossia l’attività pressoché esclusiva dell’azienda.

Ovviamente il signor L. impugna il licenziamento e si fionda di nuovo in tribunale, chiedendo che il licenziamento venga dichiarato non semplicemente illegittimo, ma manifestamente infondato e pure ritorsivo e discriminatorio. La precisazione è resa necessaria dalla riforma Fornero: con il “nuovo” articolo 18, infatti, in caso di giustificato motivo oggettivo, la semplice illegittimità del licenziamento non comporta la reintegrazione ma solo un risarcimento del danno; per riottenere il posto di lavoro è necessario che i motivi del recesso indicati dal datore di lavoro siano non semplicemente infondati, ma “manifestamente” infondati (che cosa significa? chiedetelo alla Fornero!), oppure che sia dimostrata la natura discriminatoria del licenziamento.

Sosteniamo, insomma, che l’unica vera ragione del licenziamento del signor L. sia stata il fatto che avesse ottenuto il posto di lavoro a tempo indeterminato grazie alla precedente sentenza di illegittimità dei contratti a termine: si tratta cioè di una vera e propria rappresaglia da parte dell’azienda, comportamento che la giurisprudenza considera alla pari di una discriminazione.

Il datore di lavoro non trova di meglio che riconoscere, nelle sue difese, che il posto di lavoro del signor L. è assolutamente fungibile, sostenendo che “rispetto a una società come R. che ha un reiterato ricorso al contratto a tempo determinato” non sia possibile stabilire se le nuove assunzioni siano intervenute proprio per coprire il posto del signor L., o per coprire altri (identici!) posti vacanti. Se vi pare un ragionamento poco logico, siete in buona compagnia.

Il 31 luglio c’è l’udienza, a Busto Arsizio fa un caldo bestiale, in tribunale siamo soltanto noi e il giudice. Sull’illegittimità del licenziamento c’è poco da dire: se il posto è fungibile e il personale è rimasto sempre lo stesso, non c’è stata alcuna soppressione del posto di lavoro. Ma mi sembra evidente anche lo scopo di rappresaglia: la società R. non poteva permettere che il signor L. ritornasse al lavoro, dimostrando così ai suoi colleghi, molti dei quali a loro volta assunti a tempo determinato, che farebbero bene a impugnare i loro contratti! Ha fatto come i governatori dei Caraibi, che esponevano i cadaveri dei pirati impiccati all’ingresso del porto, di monito a chi volesse seguirne l’esempio.

Ora, il signor L. non è certo Johnny Depp, e neppure Machete, ma il punto coglie nel segno. Il 19 agosto, mentre io sguazzo nello Ionio, il giudice di Busto Arsizio scrive: “La tesi difensiva di parte convenuta è inconsistente. … Non è possibile sostenere che sia stata soppressa la posizione lavorativa di aviorifornitore, trattandosi esattamente dell’attività che caratterizza l’esistenza stessa della società convenuta. … In conclusione, è manifesta l’insussistenza delle motivazioni poste a fondamento del licenziamento. … L’inesistenza di alcun giustificato motivo oggettivo, la precedente – ma solo virtuale – riammissione in servizio per ordine giudiziale, la mancata esecuzione della sentenza di primo grado, anche nei capi risarcitori, l’unicità del caso del signor L. tra tutti gli addetti con analoghe mansioni, sono elementi sufficienti e idonei a qualificare quello in oggetto come licenziamento discriminatorio“.

Il signor L. ha ottenuto per la seconda volta il posto di lavoro che gli spetta di diritto, oltre a un (sempre modesto) risarcimento del danno. Che ci provino pure a levarglielo un’altra volta.

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