Il sogno di Chang

Chang

Questa è la storia di un miliardario thailandese – lo chiameremo Chang, anche se non sono certo che sia un nome thailandese – che non avendo un tubo da fare come tutti i miliardari, coltivava per diletto due passioni: le arti marziali e il karaoke. Per la verità aveva anche un’altra passione: il cinema. Fin da bambino, sognava di diventare un celebre e apprezzato cineasta.

Aveva scritto la sua prima sceneggiatura all’età di dieci anni: quando l’insegnante aveva protestato che “Il Ninja Maledetto” non fosse adatto per la recita scolastica di fine anno, il padre aveva comprato la scuola e licenziato la maestra, che insisteva per mettere in scena una riduzione da “La Tempesta”. “Si faccia assumere da questo Scéspir, visto che ci tiene tanto“, aveva commentato Chang senior. Lo scarso entusiasmo del pubblico a questa prima prova non aveva scoraggiato il bambino prodigio: con le monetine lanciate sul palco dagli infuriati genitori dei compagni, unite a un generoso finanziamento del padre, Chang junior si comprò una videocamera, con cui cominciò a riprendere un po’ tutto quel che gli capitava.

Il suo soggetto preferito era in effetti… se stesso: armato di cavalletto, faceva lunghe riprese soprattutto dei suoi allenamenti e delle sue interpretazioni canore. Periodicamente, invitava gli amici a casa (“casa” è senz’altro un termine inadeguato per descrivere una qualsiasi delle ville di famiglia) a vedere i suoi filmati e a sentirlo cantare. All’età di 17 anni l’ultimo amico che gli era rimasto si suicidò.

L’isolamento del non più piccolo Chang era assoluto, ma non particolarmente doloroso per il miliardario. Ciò che davvero lo affliggeva era il mancato riconoscimento del suo talento cinematografico. Finché un giorno ebbe un’idea: “Se c’è una cosa che non mi manca, sono i soldi: offrirò uno sproposito a qualche regista famoso per realizzare il mio film. Come ho fatto a non pensarci prima?

Aveva scritto una sceneggiatura dal titolo provvisorio “Mani”, che grosso modo era così: un super-poliziotto armato di machete (che portava abitualmente infilato nel sedere, per camuffarlo meglio) andava in giro a punire i criminali; una famiglia di trafficanti di droga americani lo voleva morto, perché era responsabile dell’uccisione di uno dei figli, colpevole di un feroce stupro; il poliziotto evitava abilmente una serie di attentati e faceva fuori la capofamiglia, limitandosi a mozzare le mani all’altro figlio, meno colpevole, e a sua volta preda di una forma acuta di complesso di Edipo; in mezzo, l’eroe della storia aveva anche modo di esibirsi più volte nel canto davanti agli altri poliziotti ammirati.

Il piano di Chang era agganciare il regista e fargli firmare pure la sceneggiatura: solo dopo il successo della pellicola avrebbe svelato al mondo che l’autore, in realtà, era lui!

L’astuto riccone fu molto stupito dai rifiuti in successione di Martin Scorsese, Steven Spielberg e Brian De Palma: aveva offerto loro davvero un sacco di soldi, e aveva ottenuto solo risate di scherno! Per convincere Quentin Tarantino inserì nella sceneggiatura una scena di thai boxe, ma neppure questo fu sufficiente. Decise quindi di rivolgersi agli autori europei. Wim Wenders (“una garanzia!“, gli aveva assicurato il suo intermediario) si disse entusiasta del progetto, ma purtroppo era già sotto contratto per altre cinque produzioni e proprio non riusciva a trovare il tempo; Emir Kusturica non girava niente che non contenesse musiche gitane, ma per quanto si fosse sforzato Chang non riuscì a trovare il modo di inserirle nella storia; neppure Berlusconi poteva avere niente a che fare con un film ambientato in Thailandia, e così anche Nanni Moretti rifiutò l’offerta.

Insomma, per farla breve, dopo un’altra mezza dozzina di “no” più o meno cortesi, finalmente il nostro miliardario trovò l’uomo che faceva per lui: Nicolas Winding Refn. L’autore danese era povero in canna e non aveva potuto dire di no alla pioggia di denaro thailandese. Non era nemmeno l’ultimo degli stronzi però: aveva appena vinto il premio come miglior regista al Festival di Cannes. In più poneva soltanto una condizione: che venisse ingaggiato come attore principale il suo amico Ryan Gosling, ovviamente nella parte di uno dei trafficanti americani. Lungi dal rappresentare un problema, la scelta fu accolta con entusiasmo da Chang, che si era ritagliato su misura il ruolo del super-poliziotto: avrebbe avuto l’occasione di conciare per le feste, sia pure soltanto sul set, il bellone canadese – una bella rivalsa per il miliardario, ricco sì, ma brutto come la fame.

Il film venne presentato al Festival di Cannes con un nuovo titolo e fu accolto con sonori fischi, che Chang interpretò come di apprezzamento. Per sua fortuna, non leggeva l’italiano:

Da noioso, Solo Dio perdona diventa ben presto scriteriato e inutilmente estetizzante (…) film imbarazzante, per chi l’ha fatto e per chi ha la sfortuna di vederlo.
Alberto Crespi su L’Unità
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