Centrosinistra o rivoluzione

 

Allo Sportello Lavoro di Radio Aut si sono presentati qualche settimana fa due ragazzi che lavorano come magazzinieri per la filiale italiana di una multinazionale statunitense, che ha annunciato l’intenzione di delocalizzare alcuni uffici dall’Italia all’Est Europa: temono che “se entra il sindacato” la scelta dei lavoratori in esubero sarà fatta non soltanto fra gli addetti agli uffici da chiudere, ma fra tutti i dipendenti, compresi i magazzinieri che, in teoria, non sarebbero interessati dalla delocalizzazione. In effetti è così. Se la prendono con il sindacato più che con l’azienda che si sposta nell’Est per risparmiare, sulla loro pelle.

Più o meno negli stessi giorni un’amica che lavora come correttrice di bozze per una grande casa editrice mi ha fatto leggere la sua appassionante testimonianza: dopo anni di contratto a progetto farlocchi l’azienda ha deciso che tutti gli addetti dovranno aprire partita IVA, fin d’ora li obbliga a lavorare da casa e impedisce loro perfino di utilizzare la mensa interna, per rafforzare l’inganno che si tratti di “consulenti” e non di veri e propri dipendenti. Nessuno però farà causa probabilmente, perché temono che altrimenti non potranno più lavorare nell’editoria.

Sempre allo Sportello dell’ARCI, la scorsa settimana una ragazza mi ha raccontato la sua esperienza come tecnico addetto alle produzioni teatrali, presso un importante teatro lombardo: contratti stagionali a chiamata, protezioni scarse e assicurazione nessuna. Se ti va bene è così, altrimenti c’è una fila di stagisti pronti a lavorare per meno. Anche qui, fare causa è fuori discussione se si vuole continuare a lavorare nel settore.

Una persona che mi è cara, invece la causa l’ha fatta alla minuscola azienda che l’aveva tenuta in nero per cinque mesi, e a progetto, insensatamente, per altri sette. Alla fine le hanno offerto l’equivalente di sei mesi di stipendio per conciliare la controversia: a conti fatti, è più o meno quanto prenderebbe vincendo la causa, avendo escluso in partenza, per ovvie ragioni, di tornare a lavorare in quel posto. Non posso che consigliarle di accettare, pur sapendo che non basterebbe il doppio a risarcirla per un anno di angherie e sfruttamento.

Ora, io non credo di essere mai stato fra quei giuristi che ripongono una fiducia assoluta e incrollabile nella legge, che la considerano il discrimine fra giusto e sbagliato. Confesso però che qualche volta ho l’illusione che il diritto possa costituire un argine, per quanto fragile, ai peggiori soprusi. Ma è l’illusione di un momento, spezzata subito da frammenti di vita che mi colpiscono ogni giorno.

Del resto sarebbe sorprendente il contrario: la legge non è che il riflesso, più o meno accurato, del sistema sociale in cui viviamo. In un sistema basato sullo sfruttamento, la legge non può colpire gli sfruttatori se non di striscio, dove non fa male.

Per valere qualcosa in più di una pacca sulle spalle, la legge dovrebbe prevedere sanzioni davvero deterrenti contro le aziende che danneggiano i propri lavoratori, fino alla confisca dell’attività, da affidare alla gestione di chi ci lavora: proposte di questo tipo non a caso sono contenute nel “programma di transizione” proposto dai marxisti di Syriza, in parallelo alla nazionalizzazione dei centri fondamentali dell’industria e dell”economia. In Grecia, non su un altro pianeta. Ecco la riforma del lavoro che occorre! Per averla, è chiaro, non basta un centrosinistra, ci vuole una rivoluzione. Sempre più realistico che pensare che la soluzione la troveranno Vendola e Bersani

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3 comments

  1. Ciao!
    Oggi discutevo con un tale (anche una brava persona, dopo tutto) .
    Bene, la persona in questione ha sostenuto che le grandi imprese evadono perchè “devono pagare il 66% di tasse.”
    Una discussione su basi razionali era evidentemente impossibile: se questo fosse vero, imprenditori, managers, amministratori delegati ecc. correrebbero a fare gli operai: sarebbe più conveniente…
    Ma ragionando seriamente, QUANTO devono pagare DAVVERO i “mitici” membri di quel mondo?
    Te lo chiedo (e qui mi collego un po’ di più al tuo post) perchè credo che costoro utilizzino il pretesto dell'”eccessiva” (?) pressione fiscale oltre che (prima o poi) per delocalizzare, anche per spremere ed umiliare i lavoratori olttre ogni umana decenza.
    Dovete lavorare di più o con quello che pago di tasse, se non guadagno abbastanza sarò costretto a chiudere;
    dovete rinunciare alle ferie o farle quando fa comodo a me;
    i contributi Inps? E come faccio a versarveli?
    Ecc. ecc.
    Salutone.

  2. Ciao,
    non credo si possa fare un discorso unitario per tutti i datori di lavoro, per quanto riguarda l’incidenza delle tasse sul fatturato e dunque sui profitti. Anche i metodi di sfruttamento non sono uguali alla FIAT e nel baretto con due dipendenti, anche se il fine è sempre lo stesso.
    Tra l’altro, francamente a me neppure interessa se per il singolo imprenditore sia soggettivamente conveniente tenere aperta l’azienda, e non credo sarebbe giusto, in nome di questo principio, diminuire le tasse sull’impresa.
    Finché il socialismo non sarà il sistema economico di gran lunga dominante sul pianeta (e non è imminente) ci sarà sempre qualche posto dove il lavoro costi di meno: è chiaro che non può essere quello il criterio per stabilire la quantità di tasse da imporre agli imprenditori.
    Sono sempre più convinto che, nello sistema attuale, specialmente in una fase di crisi profonda, una soluzione che consenta a tutti i piccoli imprenditori di avere un profitto conveniente e allo stesso tempo ai lavoratori di poter lavorare con un salario decente, semplicemente, *non esista*.
    Non è per malvagità che i datori sfruttano chi lavora per loro (in alcuni casi, anche, ma non è l’aspetto più importante), ma perché il sistema si basa proprio sullo sfruttamento, tanto più intenso quanto minori sono i margini di profitto. Per questo motivo nessuna legge che non rovesci completamente il sistema è destinata a *non poter* intaccare la radice dello sfruttamento.

  3. Condivido alla grande.
    Le “giustificazioni” degli imprenditori non reggono da nessun punto di vista.
    E comunque, come diceva Lenin, aspettarsi dell’onestà dai capitalisti è come predicare la virtù ai tenutatari delle case di tolleranza!

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