Siamo tutti antifascisti?

Sono in cinque o sei, una sera della scorsa settimana, fuori da un locale del centro, il New Street di Strada Nuova (premio speciale della critica per l’originalità); almeno alcuni di loro sono ben noti fascisti indigeni, già tristemente famosi per episodi di violenza e tentativi di intimidazione nel corso degli ultimi anni. Scorgono una maglietta con scritto “Antifascista”, indossata da un ragazzo che sta risalendo la strada in bici, lentamente; lo fermano, lo circondano, gli intimano di togliersi la maglietta, perché “a Pavia funziona così”; volano insulti e forse qualche cazzotto, che comunque non coglie nel segno. Nessuno intorno, avventore o passante, sembra notare nulla di strano o si sogna di intervenire. Alla fine il ragazzo viene costretto a levarsi la maglietta, che gli viene sottratta; prosegue in bici a torso nudo, nell’indifferenza generale.

Per fortuna la vicenda non finisce subito dimenticata: viene raccontata e ripresa prima dalla stampa locale di origine dell’aggredito (abruzzese), poi dalla Provincia Pavese. L’indignazione corre veloce su Twitter e su Facebook, mentre la prossima settimana ci sarà almeno un’iniziativa pubblica di condanna di questo ennesimo atto infame: seguiranno anche qui tutti i dettagli del caso.

Ma intanto, facciamo qualche passo indietro: se “siamo tutti antifascisti”, se non è vero – e non è vero, per fortuna – che “a Pavia funziona così”, come è possibile che accadano episodi come quello della scorsa settimana? In pubblico, davanti a decine di persone che nel migliore dei casi hanno semplicemente girato la testa dall’altra parte?

Questi fascisti non saltano fuori oggi e non saltano fuori dal nulla. Come si può notare dando un’occhiata all’archivio del sito dei Giovani Comunisti, sono ormai dieci anni che infestano Pavia e dintorni, sotto varie sigle, alternandosi all’analoga teppaglia di Forza Nuova. In ogni occasione questa feccia ha trovato sulla sua strada i militanti antifascisti, la cui mobilitazione ha obbligato la Questura, ancora lo scorso aprile, a vietare a questi stessi individui l’apertura di una sorta di locale neonazista, il Clubhouse 88 (che sta per HH, “Heil Hitler“).

In passato, qualcuno di loro ha subito modeste condanne, qualche “foglio di via”, multe irrisorie. Ma, nonostante la presenza dei fascisti in città sia sempre stata arginata, evidentemente il problema non è mai stato risolto del tutto: perché? Innanzitutto, è chiaro che questa gente – e non sto qui a distinguere tra naziskin e forzanovisti – gode di appoggi politici nella destra che oggi governa Pavia, dal vicesindaco Gianmarco Centinaio all’Assessore alla Pubblica sicurezza (!) Marco Galandra.

Ma il fenomeno non è soltanto pavese, ovviamente, ed è legato strettamente con la situazione economica e sociale: le istituzioni politiche ed economiche che, neppure elette, governano il Paese, mentre svuotano di ogni residuo contenuto la parola “democrazia”, accentuano i tratti autoritari dello Stato e rivolgono sistematicamente e in modo sempre più palese la sua forza contro i lavoratori e gli sfruttati. Alla fine, occorre chiedersi se ci sia davvero una differenza sostanziale fra l’aggressione di un gruppetto di teste rasate a un giovane antifascista, e le cariche della polizia contro lavoratori immigrati in sciopero, come a Basiano lo scorso giugno, o contro i manifestanti No TAV in Val Susa.

La risposta è no, non c’è alcuna soluzione di continuità: la violenza neofascista è soltanto la versione estrema e in alcuni casi incontrollata della violenza di cui si serve sistematicamente lo Stato per tutelare gli interessi dei ricchi contro i deboli. Perciò i fascisti sono tollerati, quando non direttamente utilizzati per i propri fini dal padronato e dai suoi rappresentanti; finiscono per essere accettati da molti come un dato normale, magari criticabili ma alla stessa stregua dei famigerati “centri sociali”, o perfino più innocui. Succede così che in cinque aggrediscano un ragazzo, in piena vista e sotto gli occhi di decine di persone, senza che nessuno alzi un dito o almeno una voce.

Anche per queste considerazioni lo scorso 25 Aprile la parte più attiva dei militanti antifascisti pavesi ha deciso di disertare la manifestazione ufficiale, in spregio di istituzioni che non tutelano e meno che mai rappresentano i valori della Resistenza, per organizzare una piazza differente, per ascoltare il partigiano Umberto Respizzi invece del sindaco di destra e del prete amico suo. Una scelta, questa, che ha evidenziato la distanza tra l’antifascismo militante e quello “istituzionale”: nella piazza con i maggiorenti della destra pavese – più o meno palesemente sponda dei naziskin – si sono ritrovati il Partito Democratico, che del resto di questa destra è alleato nel sostegno al governo Monti e alle sue politiche antipopolari, e purtroppo anche l’ANPI.

Torniamo a oggi: certamente è utile che a questa mobilitazione in particolare partecipino tutte le forze che hanno radici antifasciste, più o meno sepolte, compreso eventualmente il PD (sempre che la partecipazione sia reale e non virtuale); sarebbe anche senz’altro molto importante la partecipazione dell’ANPI pavese. Detto questo, è sbagliato ignorare la distanza abissale che separa noi dal Partito Democratico, anche nel modo in cui la Resistenza va interpretata e praticata. Senza pretesa di dare a nessuno “patenti” di antifascismo, se può servire scendere in piazza tutti insieme una sera, non è tuttavia in alcun modo possibile costruire un “fronte” unitario con chi cancella l’Articolo 18, garantisce gli interessi della finanza contro quelli dei lavoratori, sostiene più o meno direttamente la repressione dei movimenti sociali.

Disse Respizzi, in apertura del suo discorso il 25 Aprile, che “esistono soltanto due partiti, quello degli sfruttatori e quello degli sfruttati“. Forse si può essere antifascisti pure stando dalla parte degli sfruttatori, come il PD che senza contraddizioni sostiene questo governo antidemocratico; ma è certo che finché ci saranno sfruttatori ci saranno i fascisti: non si può combattere gli uni senza combattere gli altri.

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6 comments

  1. I fascisti pavesi si sono da sempre distinti per violenza e brutalità. La distruzione della sede dell’Avanti a Milano avvenne proprio per mano di squadristi pavesi.
    Il punto evidentemente è che i nipotini di quella gente sono ancora in giro a fare le squadracce.

  2. “San Giuseppe era liberale
 e la Vergine falangista
 e però il loro figliolo
 nacque socialista”


    Invio questo articolo (a cui sono molto affezionato, quasi un testamento spirituale).
 Magari non lo condividerete, ma in ogni caso consideratelo un contributo.
    Quello delle strumentalizzazioni fasciste nei confronti di cause di sinistra (oltre all’autodeterminazione e alle lotte di liberazione dei popoli: l’antimperialismo, l’ambientalismo, l’antispecismo etc.) è un problema che, a mio avviso, andrebbe affrontato molto seriamente, non solo con dichiarazioni di principio ideologiche. Altrimenti si rischia di sottovalutarlo. 
In Francia siamo arrivati al punto che Vae Victis, un gruppo rock “identitario” collocato all’estrema destra, ha scritto una canzone sulla Commune (quella del 1871!) rivendicando i comunardi in chiave “comunitarista”. Non penso sia eccessivo considerare questi esperimenti come “l’altra faccia del revisionismo storico”.
    Personalmente ho provato a comprendere il “fenomeno” (anche se, da proletario autoalfabetizzato, non sempre mi sentivo all’altezza), ma come minimo mi sono sentito frainteso (dai compagni, intendo).
    Resto del parere che se uno a 15-16 anni si indigna per la sorte di Bobby Sands e degli altri militanti repubblicani del 1981, anche se si definisce di destra, non è perso completamente. Forse vale la pena di spiegargli alcune cose; per esempio che una lotta di liberazione di destra è un controsenso. Magari ci ripensa. Pensando alla Storia passata, non sono io ma alcuni storici baschi della sinistra abertzale (v. Inaki Egana) che hanno riletto non solo le 2 guerre carliste (culturalmente conservatrici, ma di fatto anche contro l’instaurazione del capitalismo in Euskal Herria) ma addirittura la partecipazione dei requetès alla guerra civile dalla parte sbagliata (il franchismo, ca va sans dire) come un sostanziale equivoco (da parte di altri baschi che forse si illudevano di rimettere in discussione l’espropriazione della sovranità nazionale della nazione basca seguita alla sconfitta della 2° guerra carlista). E gli esempi sono tanti. Perché lasciare che la memoria della resistenza popolare espressa dal brigantaggio (e strumentalizzata dai reazionari) venga coltivata da fascisti e cattolici integralisti di destra? O banalizzare le scelte vegane e antispeciste di molti giovani? Si tratta comunque della capacità di “sentire sulla propria pelle l’offesa fatta a qualcun altro”.
    
Questo lungo articolo era già circolato su “A” in versione ridotta e anche, provocatoriamente, su siti che si definiscono “identitari” (diciamo pure di destra) suscitando polemiche, offese e altro nei confronti del sottoscritto.
 Segno che forse avevo giusto e che comunque i fasci hanno la coda di paglia. In particolare nei commenti si cercava di smontare l’ipotesi che la “croce cerchiata delle ss francesi (quella che loro si ostinano a chiamare impropriamente “croce celtica”) fosse un richiamo al nazismo. Peccato per loro, come tale veniva rivendicata da quei neonazisti francesi (alcuni ex ss) che la riesumarono nel dopoguerra. E comunque il fatto che venisse poi utilizzata dall’OAS basta e avanza. Anche in questo, io credo, si riconosce lo “stile revisionista” con cui si minimizza la Storia e si cerca mascherare la vera natura della “peste bruna”(riconosco che per la maggior parte dei compagni si tratta di “questioni peregrine”). Io comunque ritengo che non si dovrebbe lasciare niente che abbia a che fare (o che abbia avuto) con qualsiasi forma di lotta di liberazione ai fascisti.
    ciao
    
Gianni Sartori

    FASCISTI, TENETE GIU’ LE MANI DALL’IRLANDA !
    (Gianni Sartori)
    …dove, compatibilmente con le possibilità dell’autore, si cercherà di spiegare come la cosiddetta “croce celtica” sia stata adottata dalle formazioni di estrema destra in quanto simbolo dei collaborazionisti francesi (per cui sarebbe opportuno definirla d’ora in poi “croce cerchiata delle ss francesi”) dando nel contempo qualche indispensabile informazione sulla Resistenza all’occupazione nazista…
    L’ambigua vicenda del “sidro Bobby Sands” messo in commercio qualche fa da Casa Pound (e che provocò un duro intervento del Sinn Fein contro l’indegna strumentalizzazione), non era certo il primo tentativo di appropriazione indebita da parte dei fascisti della causa repubblicana irlandese.
    Un buon libro pubblicato nel 2010 aveva fornito ad alcuni personaggi di destra l’occasione per strumentalizzare le lotte del popolo irlandese. Si trattava de “Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese” (Castelvecchi ed.) di Silvia Calamati, Laurence McKeown e O’Hearn.
    Sciopero della fame fino alle estreme conseguenze. La forma di lotta adottata da Sands e altri nove prigionieri repubblicani, come mi spiegava nel 1986 Domhnall De Brun (insegnante di gaelico a Derry, anarchico e figlio di un internazionalista irlandese volontario in Spagna) “più che un richiamo al diritto tradizionale, rappresentava un atto politico all’interno di un processo collettivo di liberazione”. L’introduzione dell’internamento a tempo indeterminato risaliva al 1971. Nel 1976 venne revocato lo status di prigionieri politici e da quel momento i repubblicani arrestati finirono segregati nei Blocchi H. Nel 1978, vedendo lo stato di degradazione in cui vivevano, l’arcivescovo Tomàs O’Fiaich dichiarò che “lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni”. Il 27 ottobre 1980 iniziava uno sciopero della fame che, dopo una sospensione in dicembre, riprenderà nel marzo 1981. Bobby Sands muore il 5 maggio. Tra maggio e agosto del 1981 la stessa sorte toccherà ad altri nove prigionieri: Francis Hughes, Raimond McCreesh, Patsy O’Hara, Joe Mc Donnel, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McIlwee, Micki Devine. Sette hunger strikers appartenevano all’Irish Republican Army (Ira), gli altri tre all’Irish National Liberation Army (Inla). Uno dei tanti diffusori di retorica benevola sui fascisti nostrani, Nicola Rao, scrive impropriamente “Bobby Sands e dopo di lui altri 15 detenuti dell’Ira morirono di fame…”. Almeno due dati imprecisi, l’appartenenza all’Ira di tutti i prigionieri e il numero dei morti. Poco più avanti, alimentando l’equivoco sulle affinità tra neofascismo e lotta di liberazione irlandese, riporta che nel 1981“i muri di molte città italiane furono coperti da manifesti e scritte, tutti firmati rigorosamente con una croce celtica, di solidarietà e di appoggio alla causa dei repubblicani irlandesi”. Falso. Manifesti e scritte erano soprattutto di sinistra (autonomi, “Lotta continua per il comunismo” etc). Quelli di Terza Posizione (TP, estrema destra), erano firmati con la runa “dente di lupo” (detta anche “nodo di rune”). E’ disponibile in proposito un’ampia documentazione fotografica.
    La runa “dente di lupo”, di origine germanica, non celtica, esiste sia in versione verticale (in araldica) che orizzontale (quella di TP). Nella seconda guerra mondiale venne utilizzata da varie bande criminali naziste: 2° divisione SS Das Reich; 4° Divisione SS Polizei; 34° Divisione SS Volunteer Grenadier landstorm Nederland, oltre che dalla Hitlerjugend e dal NS-Volkswohlfahrt. Oltre che da TP, è stata adottata da altri gruppi neonazisti: Aktion nationale Sozialisten/nationale Aktivisten (ANS/NA); Junge Front (JF) del Volkssozialistische bewegung deutschalands (VSBD); Wiking-Jugend; Vitt Ariskit Motstand (la svedese “Resistenza Bianca Ariana”). *

    Uno dei tre autori de “Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese”, Laurence Mc Keown, è rimasto per sedici anni prigioniero a Long Kesh. Destinato a diventare l’undicesima vittima, il suo sciopero della fame si interruppe al settantesimo giorno. Quando ormai era già in coma, i familiari acconsentirono a farlo alimentare artificialmente (dopo che le richieste dei prigionieri erano state accettate nella sostanza).

    Nel 1994 lo avevo incontrato durante un dibattito organizzato dalla “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (Fondazione Lelio Basso). Aveva spiegato che “sarebbe praticamente impossibile capire perché siamo arrivati a questa decisione senza conoscere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti. Le condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava in grado di modificarle. Vedere con i nostri occhi la dura repressione subita dai detenuti non faceva altro che rafforzare le nostre convinzioni. Dato che il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarli, di farli apparire come delinquenti comuni “dovevamo ribellarci per dimostrare che le nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali”. Una decisione che non fu certo presa alla leggera. “Per quanto mi riguarda -aveva concluso – ero ben consapevole che questo sciopero sarebbe stato portato fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno, chi sarebbe morto e chi sarebbe sopravvissuto…”.
    I tentativi della “nuova destra” di appropriarsi della lotta di liberazione nazionale del popolo irlandese non si esaurirono nel 1981. E’ noto che alcuni neofascisti (Walter Sordi, Enrico Tommaselli…) vennero arrestati con in casa manifesti e giornali repubblicani (“An Phoblacth”) e libri su Bobby Sands. Sdoppiamento della personalità o semplice confusione ideologica? ** Nelle loro latitanze britanniche venivano aiutati da elementi del National Front (partito razzista di estrema destra) sostanzialmente schierato con le squadre “lealiste”, protestanti-filoinglesi, quelle che periodicamente si rendevano responsabili di omicidi settari nei confronti di qualche cattolico. Inoltre i “lealisti” erano in ottimi rapporti anche con la Ruc (Royal Ulster Constabulary), la polizia nordirlandese che forniva gli elenchi dei sospetti militanti repubblicani da eliminare. I legami tra l’estrema destra inglese (oltre al Nf, il British National Party, il Greater British Movement, la League of St. George e C18) e l’estrema destra protestante dell’Ulster si resero evidenti il 15 febbraio 1995, a Dublino, durante un’amichevole tra le nazionali di calcio di Inghilterra e Irlanda. La partita si svolse tra saluti nazisti, slogan contro l’Ira e cori contro gli accordi di pace. Si concluse con lanci di oggetti contro il pubblico irlandese e violenti scontri. Bilancio: una cinquantina di feriti e la morte di un tifoso irlandese. Molti hooligans, i tifosi britannici più esagitati, facevano parte di organizzazioni neonaziste (compresa C18; C per Combat, mentre il numero indica la prima e l’ottava lettera dell’alfabeto, le iniziali di Adolf Hitler). Ma, oltre alle organizzazioni britanniche, i “lealisti” nordirlandesi ne frequentavano anche altre di estrema destra. Esistono prove fotografiche di miliziani dell’Ulster volunteer force (Uvf) presenti a qualche manifestazione in Belgio insieme a neonazisti fiamminghi e a quelli francesi di Ordre Nouveau.
    LA CROCE CERCHIATA DELLE SS FRANCESI
    Riconoscibili questi ultimi perché usavano la cosiddetta (tre volte cosiddetta quando è quella adottata dai fascisti) “croce celtica”. In realtà il simbolo (denominato “celtica” solo in epoca recente, non alle origini) ricorda una runa (anche se i neofascisti lo escludono) e venne utilizzato come mostrina dalla “Compagnia Flack” (o meglio: una delle compagnie denominate Flack, antiarea) formata da francesi collaborazionisti integrati nella brigata, poi divisione, Charlemagne durante la seconda guerra mondiale. Insisto: sarebbe più corretto denominarla “croce cerchiata delle ss francesi”. Nessuna parentela con le vere croce celtiche che svettano sulle antiche tombe irlandesi (espressione di un sincretismo tra cristianesimo e religione tradizionale gaelica) e anche su molte tombe di volontari dell’Ira e dell’Inla morti in combattimento.
    Utilizzata dal Fronte della gioventù (Fdg) negli anni settanta, ben sapendo quale fosse il riferimento al nazismo e al collaborazionismo (un simbolo di continuità), venne proibita dallo stesso leader del MSI, Giorgio Almirante.
    In Italia la “croce cerchiata delle ss francesi” era stata adottata nei primi anni sessanta da Giovane Europa (in precedenza Giovane Nazione), filiale italiana del movimento Jeune Europe (in precedenza Jeune Nation) fondato da Jean Thiriart che aveva combattuto nelle waffen-ss . A questo movimento, nel 1963, aderirono un gruppo di missini fiorentini (Attilio Mordin, Franco Cardini, Marco Bersacchi, Amerino Griffini…) e qualche ordinovista (Massimo Marletta…). In quello che sembra un attacco di autorevisionismo, uno dei soci fondatori sosteneva che fu per “allontanarsi dalla lugubre e bellicosa simbologia neofascista e neonazista” (…e per questo adottavano un simbolo delle waffen ss?!?). In realtà sembrerebbe piuttosto un modo per rivendicare proprio quelle origini, quella appartenenza, senza insospettire l’opinione pubblica e nel contempo strizzare l’occhio agli iniziati. In precedenza il simbolo sarebbe stato inalberato dalle italiche Formazioni Nazionali Giovanili. Sempre di destra, ovviamente. Attorno al 1975 venne sistematicamente adottato dalle organizzazioni giovanili missine (Fdg e Fuan), mentre qualche anno prima i rautiani lo avevano proposto al MSI con l’aggiunta di una fiamma tricolore sullo sfondo.
    Cardini suggeriva un legame anche con la “francisca” stilizzata del Parti populaire francais (PPF ) di Jacques Doriot. Facendo il finto tonto, lo storico sorvola sul fatto che la Francisque nella versione bipenne, con lame tricolori e manico costituito dal baton de marèchal (quello di Petain, ovviamente) venne prescelta come emblema del regime collaborazionista di Vichy. Nelle intenzioni, forse, avrebbe dovuto ricordare l’iconografia dei fasci littori mussoliniani. E di sicuro non venne adottata per caso come logo da Ordine Nuovo (quello italico, mentre i loro omologhi francesi di Ordre Nouveau usavano, come già detto, la “croce cerchiata delle ss francesi”). Per gli amanti della storia, va ricordato che la “francisca” era la scure da lancio dei germani occidentali (in pratica un grande tomahawk), introdotta in Gallia dai Franchi (così chiamati, pare, dal nome dell’arma e non viceversa), da cui il nome Francia. Fermo restando che i Franchi erano “germani” e non “celti”, come invece i Galli. Nessuno metterebbe in discussione il fatto che i celti britanni furono invasi dai germanici angli e sassoni. Analogamente, dopo quella romana, i celti della Gallia subirono l’invasione di varie popolazioni germaniche.*** La più duratura fu quella dei Franchi, definitivamente consolidata con Clodoveo, Carlo Martello e Carlo Magno.
    Mentre le vere croci celtiche testimoniano della relativamente pacifica diffusione del cristianesimo tra le popolazioni irlandesi, il Carlomagno è passato alla storia per aver sterminato alcuni popoli (come i Sassoni) che non volevano convertirsi al cristianesimo. E sorvoliamo su Roncisvalle, sacrosanta ritorsione dei Baschi al saccheggio di Irunea (Pamplona) operato dai soldati di Carlomagno. Altro che “paladini della cristianità” contro i musulmani (che a Roncisvalle non c’erano proprio). Ma questa è un’altra storia. Così come sarebbe un’altra storia il ruolo dei fascisti italiani nelle squadre della morte parastatali (Ate, Battaglione vasco-spagnolo, Gal…) contro la sinistra indipendentista basca. Sia in epoca franchista che dopo.****
    Tornando a Cardini, lo storico fiorentino ammetteva, bontà sua, “un legame sentimentale con il fascismo letterario francese, ma – minimizzava – si tratta di quello a cui aderì Pierre Drieu la Rochelle”. Anche se gli dobbiamo qualche buona lettura (La Valise Vide e Adieu à Gonzague dedicati al dadaista Jacques Rigaut) il poeta e scrittore Drieu è passato alla storia soprattutto in quanto collaborazionista dei nazisti. Definirlo, come si inventa Cardini “molto vicino all’estrema sinistra” è demenziale, oltre che vergognoso. Basti ricordare che nell’ottobre del 1941, insieme a Brasillach, Chardonne, Jouhandeau e altri scrittori francesi, Drieu la Rochelle accolse l’invito di Goebbels e prese parte ad un “Congresso degli intellettuali europei” in Germania. L’incontro si concluse con una visita-premio alla Cancelleria del Reich. Nel 1945, arrestato dalla Resistenza francese, l’autore di Socialisme fasciste, preferì il suicidio alla fucilazione (tentando forse di imitare il gesto di assoluta ribellione compiuto da Rigaut nel novembre 1929).

    “CHANTEZ, COMPAGNONS, DANS LA NUIT LA LIBERTE’ NOUS ECOUTE”
    Scrivendo queste righe non vorrei aver dato l’errata impressione che la terra di Vercingétorix, Saint-Just e Louise Michel abbia contribuito ad alimentare il fascismo in proporzioni analoghe a quanto seppero fare Italia e Germania. In verità la resistenza del popolo francese contro le truppe tedesche di occupazione fu immediata, estesa e ampiamente condivisa, nonostante gli inevitabili casi di collaborazionismo.
    E la repressione, ovviamente, fu durissima. Sia nella Francia occupata che nella zona detta “libre” governata dai collaborazionisti Pétain e Laval. Inoltre Alsazia e Lorena vennero annesse al Reich, mentre il Nord e Pas-de-Calais erano controllate direttamente dal comando tedesco di Bruxelles e all’interno della zona occupata lungo le coste e le frontiere si instaurava una ulteriore zone interdite.

    Tra i tanti massacri di cui si resero responsabili i nazisti e le milizie collaborazioniste, risalta per efferatezza quello dei “50 otages”, ricordati dall’omonimo monumento sull’Erdre a Nantes. Qui 48 francesi subirono la fucilazione per ordine di Adolf Hitler e del generale Otto vons Stuelpnagel, comandante del “gross Paris”, come rappresaglia per l’uccisione del tenente colonnello tedesco Karl Hotz avvenuta il 20 agosto 1941 in place Louis XVI davanti alla Kommandantur. *****
    La lista degli ostaggi venne preparata dall’Alto comando tedesco insieme ai dirigenti francesi collaborazionisti. Il ministro dell’Interno di Pétain, Pierre Pucheu, presentò una lista di 200 nomi di presunti comunisti internati nel campo di concentramento di Chateaubriant a cui il generale von Stuelpnagel aggiunse i nomi di alcuni esponenti della resistenza nantese. A Nantes, la Gestapo e la polizia francese collaborazionista rastrellavano da tempo decine di persone (giovani comunisti e socialisti, sindacalisti cattolici, membri della Jeunesse Ouvrière Catholique, senza partito…) per rinchiuderle nel campo di Chateaubriant. Il gruppo definitivo dei 50 ostaggi sarà composto da 27 comunisti, 18 resistenti detenuti a Nantes (prigione des Rochettes, prigione Lafayette…) e 5 nantesi incarcerati a Parigi.
    Il 22 ottobre del 1941, rifiutando di essere bendati, gli ostaggi vennero fucilati a gruppi di quattro; la maggior parte nel “champ de tir du Béle” di Nantes, altri nella cava della Sablière (all’uscita da Chateaubriant) e cinque al Mont-Valérien (Parigi) dove la medesima sorte era toccata il 29 agosto all’ufficiale di marina Honoré d’Estienne d’Orves e dove verrà giustiziato, il 15 dicembre, anche il giornalista comunista Gabriel Péri.
    Per un disguido nel coordinamento tra i servizi segreti, due ostaggi scamparono all’esecuzione.
    Una successiva esecuzione di altri 50 ostaggi, già prevista, venne sospesa per ordine di von Stuelpnagel preoccupato per l’indignazione suscitata in tutta la Francia. Negli stessi giorni altri cinquanta ostaggi venivano passati per le armi a Bordeaux come rappresaglia per un attentato.
    Sempre al Mont-Valérien, il 17 aprile 1942 vennero fucilati 23 resistenti dei Bataillons de la Jeunesse, giovani comunisti arrestati dalla polizia francese collaborazionista e consegnati ai tedeschi. Una loro compagna, Simone Schloss, in quanto donna venne invece decapitata il 2 luglio. Iniziato il 7 aprile alla Maison de la Chimie, il processo si era concluso con la richiesta di 26 condanne a morte. Uno degli imputati venne giudicato passibile soltanto della prigione in quanto non ancora sedicenne, ma suo padre e suo fratello vennero considerati otages e fucilati. Il verdetto venne salutato con favore dalla stampa collaborazionista che in precedenza aveva ripetutamente insultato gli accusati. Gli stessi giornali su cui scrivevano Drieu la Rochelle, Chardonne, Jouhandeau e Céline. Quanto a Robert Brasillach, divenne direttore di uno dei giornali riapparsi con la loro vecchia testata, ma ora al servizio dei tedeschi. Altri direttori di giornali collaborazionisti furono Marcel Déat, Jacques Doriot, Jean Luchaire, Lucien Rebatet… Tutti complici dell’occupante nazista che intanto applicava anche in Francia la “soluzione finale” per gli ebrei. A Parigi il 16 e il 17 luglio 1942 (la rafle du Vel’ d’Hiv’) alle quattro del mattino, circa 13mila ebrei vennero arrestati dalla polizia francese (e non dalla sola Gestapo come si cercò poi di far credere). Radunati al “vélodrome d’hiver”, vennero inviati in Germania per finire nei campi di sterminio.
    Per “mantenere l’ordine interno”, il 31 gennaio 1943 Pierre Laval battezzava la Milice francaise (una derivazione del Service d’ordre légionnaire creato nel 1941) guidata da Joseph Darnand. Nel 1942 erano stati costituiti il Service de police anti-communiste (SPAC), il Service de police des sociétés secrétes (SSS) e la Police aux questions juives (PQJ).
    Decisamente collaborazionisti furono anche il Partit populaire francaise (PPF) di Jacques Doriot e il Rassemblement national populaire (RNP) di Marcel Déat che il 5 agosto 1941 crearono una Légion des volontaires francais contre le bolchevisme per inviare combattenti sul fronte dell’Est a fianco dell’esercito tedesco. Alcuni tra i maggiori esponenti del collaborazionismo filonazista (Darnand, Déat, Fernand de Brinon, Bridoux…) costituirono a Sigmaringen una Commission gouvernementale per sorvegliare, per conto dei tedeschi, l’operato di Pétain. Dei quattro citati soltanto Bridoux riuscì a evitare il plotone di esecuzione dopo la Liberazione.
    Il 15 gennaio 1943 si apriva il “processo dei 42”. Temendo di alimentare ulteriormente lo sdegno con cui l’opinione pubblica aveva reagito alle fucilazioni del 1941, sia il governo servile e collaborazionista di Vichy (guidato dal marèchal Pétain) che gli occupanti tedeschi cercarono di dare una qualche legittimità a questo ennesimo massacro. Alcuni dei 143 arrestati vennero rilasciati, altri deportati, mentre 45, accusati di essere francs-tireurs e membri di un’organizzazione comunista, compariranno davanti al tribunale militare tedesco di Nantes. Il verdetto (37 condanne a morte) viene reso pubblico il 28 gennaio. Alla lettura della sentenza Henri Adam intonò la Marseillaise ripresa con vigore da tutti i condannati. Il giorno dopo (senza attendere il ricorso degli avvocati) al champ de tir du Béle vennero fucilati i primi nove prigionieri poi sepolti a Sautron.
    Il 13 febbraio 1943 altri 25 dei condannati del 28 gennaio vennero giustiziati, mentre gli ultimi tre (Le Paih, Brisson e Coiffé) cadranno sotto i colpi di un plotone di esecuzione tedesco il 7 maggio.
    In agosto è la volta di Marcel Hatet, morto per le torture subite nell’hotel de Charette, place Louis XVI, a Nantes. Nel gennaio 1943 era stato invece decapitato in una prigione tedesca (a Colonia) il religioso Jean-Baptiste Legeay, condannato a morte con 27 bretoni nel luglio dell’anno precedente.
    Contemporaneamente a quello dei “42”, un processo analogo si era svolto a Rennes contro 29 comunisti guidati da Edouard Hervé, fratello di Raymond. Entrambi verranno fucilati a circa un mese di distanza l’uno dall’altro.
    In piena occupazione tedesca di Parigi, il poeta armeno Missak Manouchian, ex operaio alla Citroen, venne incaricato dalla Internazionale comunista di costituire un gruppo clandestino nella capitale. Ne faranno parte giovani polacchi, ungheresi, italiani, cechi, spagnoli, rumeni. Dopo una prima fase dedicata alla distribuzione di volantini contro traditori e collaborazionisti, il gruppo (definito a posteriori un “fronte popolare di immigrati”) iniziò a colpire direttamente le truppe di occupazione. Di questi resistenti (oltre a Manouchian, Simon e Marcel Raynan, Thomas Elek…) 22 verranno fucilati al Monte-Valérien il 21 febbraio 1944. Quindici giorni dopo una donna membro del gruppo sarà decapitata a Stoccarda.
    Come hanno ricordato Ramòn Chao e Ignacio Ramonet (Guide de Paris rebelle, Plon 2008) dal febbraio 1999 in rue Groupe-Manouchian 36 (Parigi, 20° arrondissement) è possibile leggere il “Manifesto rosso”scritto da Louis Aragon per celebrare questi martiri della Resistenza. Il nome deriva dal manifesto rosso (stampato in più di 15mila esemplari) affisso sui muri di Parigi il 1 marzo 1944 dalla propaganda nazista dove i partigiani fucilati venivano definiti “armèe du crime”.
    Sulla vicenda della 35° Brigata Ftp-Moi (Francs-Tireurs et Partisans-Main-d’Oeuvre Immigrée) Marc Levy, figlio di un esponente della brigata, ha scritto “I figli della libertà” (Rizzoli, 2008).
    Da Lucie Aubrac a France Bloch-Sérazin (decapitata il 12 febbraio 1943 a meno di 30 anni), da Charles Tillon alle deportate nacht und nebel Charlotte Delbo (arrestata dalla polizia francese collaborazionista nel 1942) e Germaine Tillion…, è una lista infinita quella dei cittadini francesi appartenenti al “peuple de la nuit” che osarono ribellarsi in nome della loro coscienza contro l’ordine imposto dagli invasori nazisti. Basti pensare a Jean Moulin, presidente del Consiglio nazionale della Resistenza e Compagnon de la Libération, torturato e assassinato dai nazisti nel 1943; a Bertie Albrecht già sostenitrice del Fronte popolare. Arrestata una prima volta nel 1942, riuscì ad evadere, ma venne nuovamente catturata nel maggio 1943 e morì nel carcere di Fresnes dopo essere stata torturata; allo studente Libertaire Rutigliano, torturato e assassinato sotto gli occhi del padre, nella sede della Gestapo in Place Marèchal Foch, a Nantes (aprile 1944).
    Victor Basch, presidente della “Ligue des droits de l’homme”, presidente del “Comité pour le Rassemblement populaire” (da cui nacque il “Front Populaire”), venne assassinato con la moglie il 10 gennaio 1944 da alcuni miliziani collaborazionisti (tra cui Lécussan) della Milice francaise. In quanto ebreo e “franc-macon”, Basch rappresentava una sintesi di quanto i nazisti e i loro servi- come appunto i già citati Drieu la Rochelle e Brasillach – odiavano maggiormente. Vittime della stessa organizzazione collaborazionista fondata da Laval, anche Maurice Sarraut, l’ex ministro Jean Zay e George Mandel.
    Tra i criminali di guerra nazisti si distinse un ufficiale della Gestapo, Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) responsabile della morte di centinaia di ebrei e partigiani. Dopo la guerra fuggì in Sudamerica dove collaborò con vari regimi e con la CIA (avrebbe avuto un ruolo non secondario nella cattura di Ernesto Che Guevara) fino a quando nel 1983 non venne estradato in Francia e condannato all’ergastolo.
    Rappresaglie ed esecuzioni sommarie, opera sia dei tedeschi che dei collaborazionisti (polizia di Vichy, Milice e Franc-gardes) aumentarono man mano che i nazisti perdevano terreno, soprattutto dopo l’ordine di ripiegamento del 6 giugno 1944. Degli oltre 65mila deportati francesi non-ebrei (in gran parte politici, identificati dal triangle rouge) meno della metà fece ritorno in Francia
    Non mancarono poi stragi indiscriminate in stile Marzabotto. Nel giugno del 1944 a Oradour-sur-Glane la divisione SS Das Reich (nel tentativo di riprendere il controllo della Normandia) fece radunare tutti gli abitanti nella piazza. Centinaia di civili (in gran parte donne e bambini, anche una famiglia di emigrati dal padovano) vennero rinchiusi nella chiesa poi data alle fiamme. Chi tentava di scappare veniva mitragliato. Bilancio: 642 morti, la maggior parte carbonizzati.
    Mentre nel Vercors (luglio del 1944) era in corso una dura battaglia tra circa 8mila maquisards e più di 30mila tedeschi, coadiuvati dalle milizie collaborazioniste di Darnand, le SS distrussero Vassieux massacrando un’ottantina di abitanti . Qualche giorno dopo i nazisti scoprirono alcuni sopravvissuti nascosti in una grotta e completarono l’opera. Tra le vittime anche un gesuita e due medici che curavano i feriti.
    Nel febbraio 1945 i combattenti francesi guidati da De Lattre entreranno nel “campo di rappresaglia” di Struthof (nei Vosgi) completamente vuoto. In quello che sarà definito “l’enfer de l’Alsace” erano stati sterminati migliaia di resistenti.
    Come antidoto ai “legami sentimentali con il fascismo francese” rivendicati da qualche esponente nostrano della “Nuova Destra”, direi che può bastare.

    UN SIMBOLO DEI COLLABORAZIONISTI
    E’ possibile che la “croce cerchiata delle ss francesi”, adottata nel 1944 come mostrina speciale per la “Compagnia Flak”, venisse scelta in quanto “simbolo imperiale” usato prima da Costantino e poi da Carlomagno. Quindi, volendo cavillare, di origine o romana o germanica, non celtica. Comunque ottimo per il Terzo Reich!
    La “Compagnia Flack” (composta da volontari francesi delle waffen-ss) era una unità della Charlemagne quando questa era ancora una brigata (in seguito divenne una divisione). La Flack venne impiegata a Monaco nella difesa contraerea e la Charlemagne combatté a Berlino attorno al bunker di Hitler. A voler essere pignoli, non è il simbolo in quanto tale ad essere scippato, ma la sua denominazione. Chiamarla “celtica” rappresenta un mascheramento sulla sua vera origine, oltre che un’offesa nei riguardi dei Celti. Brave persone, tutto sommato, in quanto si opposero valorosamente all’imperialismo romano (gli statunitensi di allora).
    Chi ha scelto quel simbolo (ribadisco: la “croce cerchiata delle ss francesi”, abusivamente chiamata “celtica”) sapeva bene cosa rappresentava! Con il precedente storico della Charlemagne posta a difendere il bunker di Hitler, appare chiaro perché nell’immediato dopoguerra diventasse l’emblema preferito delle organizzazioni francesi neonaziste e neofasciste che, idealmente, da quel bunker intendevano ripartire. Un ex appartenente alla Charlemagne, René Binet, editore del bollettino Le combattant europeèn (esplicito richiamo alla pubblicazione dei volontari francesi nelle SS) e di testi apertamente razzisti come Thèorie du racisme e Contribution à une èthique raciste, lo riesumò per identificare alcuni movimenti via via fondati. Nel 1946 il Parti republicain d’union populaire e successivamente l’ambiguo (anche nel nome) Mouvement socialiste d’unité francaise sciolto nel 1949 per “incitamento alla violenza razzista”. Nello stesso anno divenne il logo di Jeune Nation. Fondata dai fratelli Sidos, Jeune Nation propugnava uno stato totalitario inspirato al fascismo e si distinse per le sue spedizioni squadristiche contro le sedi dei partiti di sinistra. Negli anni cinquanta rappresentò l’approdo di molti veterani della guerra coloniale di Indocina. Venne sciolta dal governo nel 1958 dopo un attentato contro l’Assemblea Nazionale. Il simbolo venne utilizzato anche in Belgio dal Pnf. In Francia venne ripreso dal Parti Nationaliste costituito nel 1958 dai reduci di J.N. e in seguito dal Front de l’Algerie francaise e dal Front national pour l’Algerie francaise sotto la guida di Jean- Marie Le Pen. La maggior parte degli aderenti entrerà poi nell’Organisation de l’armèe secrète (Oas), l’organizzazione dei pieds-noirs, i coloni francesi in Algeria. Il gruppo terroristico, contrario alla decolonizzazione, venne fondato a Madrid nel 1961 da Jean-Jacques Susine e Pierre Lagaillarde. Passerà alla storia, tra gli altri misfatti, per il putsch d’Algeri (v. il generale Salan). Ogni slogan tracciato dall’Oas sui muri di Algeri era regolarmente accompagnato dalla “croce cerchiata delle ss francesi”. A causa degli attentati dell’Oas, tra il maggio 1961 e il settembre e il settembre 1962, vennero uccise circa 2700 persone, di cui 2400 erano algerini. Da una costola dell’Oas nacque a Lisbona l’Aginter Press che operò soprattutto in Africa inviando fascisti francesi, belgi e italiani (tra cui Concutelli) e agenti segreti (portoghesi e statunitensi) in Congo, Angola e Namibia (invasa dall’esercito del Sudafrica che vi aveva introdotto l’apartheid) contro le lotte di liberazione di Frelimo, Paigc, Anc, Mpla, Swapo…
    In collaborazione con la CIA e con il regime portoghese, l’Aginter Press si rese responsabile nel 1969 dell’assassinio di Eduardo Chivambo Mondlane, presidente del Frente de Libertacao de Mocambique (Frelimo) e nel 1973 di quello di Amilcar Cabral, segretario generale del Partido Africano da Independencia da Guiné Bissau e Cabo Verde (PAIGC). Dopo il 1975, miliziani europei presero parte ai massacri operati dall’esercito di Pretoria in Namibia e Angola e non si esclude una partecipazione dell’Aginter Press all’assassinio delle esponenti antiapartheid Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba) che si erano rifugiate, rispettivamente, in Mozambico e Angola. Come è noto l’Aginter Press svolse un ruolo non indifferente nella “strategia della tensione” che insanguinò l’Italia da Piazza Fontana in poi.
    Intanto nell’Esagono il controverso simbolo veniva ereditato da Ordre Nouveau. Attualmente quella che andrebbe sistematicamente definita “croce cerchiata delle ss francesi” viene chiamata Keltenkreuz (“croce celta”) dai gruppi tedeschi che la utilizzano al posto della svastica con l’aquila nazista sovrapposta. Esistono poi altre denominazioni, più o meno pittoresche e new age. Per quanto mi riguarda, ripeto, l’autentica “croce celtica”, è solo quella storica di cimiteri, chiese, manoscritti e murales irlandesi.
    Nelle manifestazioni di Forza Nuova (erede di Terza Posizione ?) sono ricomparsi altri simboli inseriti nel cerchio bianco della bandiera rossa (identica a quella nazista e a quella dei razzisti sudafricani con svastica a tre braccia). Oltre alla “croce cerchiata delle ss francesi” sono state riesumate la runa “dente di lupo” (wolf sangel) già usata da Tp e quella adottata da Avanguardia nazionale (l’organizzazione di Stefano Delle Chiaie). Il simbolo di Avanguardia nazionale sarebbe la “runa Othala” (Runa di Odal, Odalrune, di matrice scandinava, non celtica). Nell’originale, un rombo con i lati inferiori allungati. I seguaci di Delle Chiaie la disegnavano con i lati inferiori allungati e ritorti, nella versione già utilizzata dalle Waffen-ss “SS Gebirg-Division Prinz Eugen”, mentre i fascisti cileni degli anni settanta (quelli che favorirono il golpe di Pinochet) la utilizzavano nella forma originale.
    Una runa identica a quella di Avanguardia nazionale, ma rovesciata con le punte verso l’alto, identificava il Rassemblement national populaire (RNP) di Marcel Déat (fucilato dopo la Liberazione) quello stesso che, insieme a Jacques Doriot del Parti populaire francais (PPF, v. l’osservazione di Cardini sulla “francisca”), costituì nell’agosto 1941 la Légion des volontaires francais contre le bolchevisme. Come ho detto, anche l’ascia bipenne adottata da “Ordine Nuovo” (Rauti, Signorelli, Concutelli) era un simbolo del collaborazionismo francese (identica a quella del maresciallo Petain e di Vichy), sebbene gli ordinovisti cercassero di nobilitarla con richiami agli etruschi o all’antica civiltà cretese. Probabilmente, vietati l’uso della svastica e del fascio littorio, i nostalgici nostrani ricorrevano ad una forma di mimetismo (camouflage) prendendo in prestito la simbologia dei loro camerati d’oltralpe. L’origine di questa importazione andrebbe cercata nei rapporti tra neofascismo italiano e gruppi della destra francese (oltre a Jeune Europe anche Lutte du Peuple), specializzati nell’opera di “intossicazione” a sinistra usando la carta dell’antimperialismo e della liberazione nazionale. Niente male per gente che aveva collaborato con l’OAS contro gli indipendentisti algerini!
    FASCISTI CON “AL KATAEB”
    Stando a quanto scrivono gli interessati, negli anni settanta alcuni esponenti di Jeune Europe sarebbero andati in Libano per combattere a fianco dell’OLP. Invece, come è noto, i fascisti italiani (non solo quelli dei NAR, i Nuclei armati rivoluzionari, di estrema destra, legati ai servizi e, forse, braccio armato della P2) in genere si schieravano con al-Kataeb (la Falange), il partito dei maroniti di destra, fondato nel 1936 da Pierre Gemayel al suo ritorno da un viaggio nella Germania nazista. Secondo Stuart Christie (“Stefano delle Chiaie – Portrait of a black terrorist“, anarchy magazine/refract publications, London 1984) avrebbero preso parte ad azioni contro i palestinesi (viene citato Walter Sordi). Mario Caprara e Gianluca Semprini, autori di “Destra estrema e criminale” (Newton Compton ed. 2009), nel capitolo dedicato ad Alessandro Alibrandi, riportavano un’intervista di Panorama a Signorelli, scomparso qualche anno fa. Secondo Signorelli: “i valorosi camerati italiani hanno aiutato la milizia di Gemayel combattendo al loro fianco nella battaglia di Tel Znatar (sic)”.
    E’ possibile che i due autori abbiano fatto un po’ di confusione e citato l’intervista sbagliata. Probabilmente Signorelli parlava degli avvenimenti di Tel al Zaatar (nel settore cristiano di Beirut) che risalgono al 12 agosto 1976. All’epoca dell’intervento militare della Siria in Libano (in favore dei falangisti) Alibrandi si trovava ancora in Italia. Comunque, più che di una battaglia bisognerebbe parlare di assedio (durato 52 giorni) e di un brutale massacro. Anche nei confronti dei feriti, nonostante l’intervento della Croce Rossa. A Tel al Zaatar l’esercito siriano (penetrato in Libano nel giugno 1976) si comportò come qualche anno dopo quello israeliano a Sabra e Chatila, con un ruolo di copertura e appoggio ai miliziani maroniti cui toccò il lavoro sporco. Resta l’incertezza sul numero esatto delle vittime, da 1500 a 3000. Con i falangisti, oltre ai neofascisti italiani, militanti francesi dei Groupes d’Action Jeunesse, spagnoli di Fuerza Jòven, fiamminghi del Vlaamsa Militantenorde (Vmo) e tedeschi di estrema destra dell’organizzazione di Karl Heinz Hoffman. Dalla parte dei palestinesi, baschi e irlandesi, presumibilmente legati all’Eta e all’Ira. Durante l’operazione “Pace in Galilea” alcuni combattenti irlandesi vennero catturati dall’esercito israeliano e consegnati alla Corona britannica.
    Molti repubblicani irlandesi avevano combattuto nelle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile spagnola. Alcuni sono ricordati nella lapide per i caduti della battaglia di Brunete (8-9 luglio 1938), altri (come Tommy Patten, caduto a Madrid verso la fine 1936, quasi contemporaneamente a Buenaventura Durruti) al memoriale dell’isola di Achill in Irlanda. Quanto alla partecipazione di alcuni irlandesi alla Guerra di Spagna dalla parte dei franchisti (spinti dalle prediche di qualche prete esaltato che vedeva in Franco un “crociato” della religione cattolica), non è mai stata rimossa dal Movimento repubblicano, ma sicuramente denigrata e combattuta. Basterebbe riascoltare la canzoni di Christy Moore “Viva la Quinta Brigada!”. Parlando dei volontari nelle Brigate Internazionali ha scritto:
    “Vennero per resistere accanto al popolo spagnolo,
per cercare di spezzare la marea montante fascista. 
Gli alleati di Franco erano i ricchi e i potenti,
gli uomini di Frank Ryan vennero dall’altra parte

. Anche le olive sanguinavano
 mentre la battaglia di Madrid stava infuriando.
 Verità e amore contro la forza del male,
fratellanza contro la cricca fascista. 

Viva la Quinta Brigada,
“No pasarán” era l’impegno che li faceva combattere
“Adelante” è il grido intorno alle colline,
 ricordiamoli tutti stasera”.
    Mentre più avanti così si esprime nei confronti dei filo-fascisti:“ Altri irlandesi risposero all’appello di Franco 
e si unirono a Hitler e anche a Mussolini. La propaganda dal pulpito e dai giornali 
aiutò O’Duffy ad arruolare la sua ciurma

. Da Maynooth venne lo slogan: “Aiutate i nazisti”
e il clero ne fece un’altra sbagliata
 quando i vescovi benedissero le Camicie Blu a Laoghaire
 mentre salpavano per la Spagna sotto la svastica”.
    Per concludere: “Questa canzone è un tributo a Frank Ryan, 
a Kit Conway e anche a Dinny Coady, 
a Peter Daly, Charlie Regan e Hugh Bonar
anche. Se tanti morirono, ne so nominare solo pochi. 

Danny Boyle, Blaser-Brown e Charlie Donnelly, 
Liam Tumilson e Jim Straney da Falls Road, 
Jack Nalty, Tommy Patton e Frank Conroy
, Jim Foley, Tony Fox e Dick O’Neill”.

    Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Irish Republican Army addestrava militarmente, contro gli inglesi, gli ebrei scampati all’Olocausto. Tutto questo va ribadito per ridimensionare l’entità, ampiamente sovradimensionata dalla destra, sui rapporti (in chiave anti-inglese) intercorsi tra alcuni elementi repubblicani e i servizi segreti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Due esponenti dell’Ira, catturati dai franchisti mentre combattevano con le Brigate internazionali, sarebbero stati rimpatriati grazie all’intervento tedesco (forse con un sommergibile). Alcune azioni dell’Ira a Londra durante la “battaglia d’Inghilterra” hanno alimentato l’ipotesi di una possibile collaborazione con la Germania.
    L’ossessione di certa destra (da On a Tp, fino a Forza nuova) di accreditarsi nei confronti delle lotte di liberazione nazionale è stata, in genere, mal corrisposta. Ancora nel 1985, avevo chiesto a Bernadette Devlin la sua opinione in merito alla simpatia dimostrata dalla cosiddetta “destra radicale” per la causa irlandese. Mi rispose che “di sicuro sono simpatie a senso unico”.
    Con la presentazione ufficiale del libro di Calamati, McKeawn e O’Hearn sotto le insegne del Parlamento europeo la vecchia questione era tornata di attualità. A fare gli onori di casa la vicepresidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, in gioventù vicina a Terza Posizione, poi Segretaria del Fronte della gioventù e deputata europea di An dal 1994. Angelilli era grande amica di Andrea Insabato, il personaggio che il 22 dicembre 2000 rimase ferito nell’esplosione della propria bomba davanti alla redazione de il Manifesto sulle scale della vecchia sede di via Tomacelli.
    Un episodio che evocava un altro attentato fascista dell’aprile1973. Nella toilette del treno, il sanbabilino Nico Azzi (con doppia militanza: Msi e “La Fenice” di Rognoni, legata a ON) si fece esplodere un ordigno tra le gambe. Non prima di essersi fatto notare in giro per il treno con Lotta continua in mano. Ai suoi funerali, nel 2007 in Sant’Ambrogio di Milano, erano presenti sia Forza Nuova che i fratelli Larussa.
    Durante la sua permanenza al Policlinico Gemelli e in carcere (molto breve, anche perché quelli del Manifesto, forse mossi a compassione, non si costituirono parte civile), Insabato ha scritto un memoriale dove trova il tempo per vantarsi delle sue “duecento conquiste di letto”. Numerose, precisa, anche durante la latitanza londinese (vedi sopra).
    Il “paladino di Dio” (per autodefinizione) ricordava affettuosamente l’amica Roberta Angelilli, la sua “prima tifosa di tutte le udienze” nei processi che lo vedevano imputato in quanto esponente di Terza Posizione (capozona alla Balduina).
    L’Angelilli è nota per aver definito i partigiani “assassini”, non riuscendo evidentemente a cogliere l’analogia tra la lotta di liberazione del 1943-45 contro i nazisti e quella irlandese contro l’occupazione britannica (e nemmeno l’analogia tra i collaborazionisti fascisti repubblichini e quelli “lealisti” protestanti). Dal libro di Caldiron “La destra plurale” (manifestolibri 2001), si ricava che porta al collo una “croce cerchiata delle ss francesi”. D’argento, noblesse oblige.
    L’attentato a il manifesto sembrava diretto in particolare contro Stefano Chiarini che si occupava della questione palestinese e con cui Insabato cercava da tempo di entrare in contatto. In precedenza Chiarini si era dedicato all’Irlanda, sia come editore che come giornalista. La sua Gamberetti Editrice aveva pubblicato “Strade di Belfast” di Gerry Adams e alcuni romanzi (“La seconda prigione”) di Ronan Bennet, un ex prigioniero politico repubblicano.
    Oltre ad aver pubblicato sul “quotidiano comunista” decine di articoli riguardanti la questione irlandese, Chiarini aveva collaborato alla realizzazione di un dossier (“La verità la prima vittima”, supplemento al n.1 de “I diritti dei popoli”, 1985) sulle violazioni dei diritti umani in Irlanda del Nord. Insieme a Gianni Palumbo, Giovanni Bianconi e Silvia Calamati, autrice di Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese.
    Alla presentazione del libro su Bobby Sands, insieme all’Angelilli, presenziava l’esponente di “Azione giovani” Tommaso della Longa, all’epoca collaboratore di varie pubblicazioni di estrema destra tra cui “Area” e “Rinascita” (in qualità di capo servizio esteri). Sul giornale della soi disant “Sinistra nazionale” (in realtà di estrema destra), si ironizzava su clandestini, immigrati e sindacati di base. Elogi nostalgici invece per la “leggendaria” marcia su Roma del ’22. Della Longa collaborava anche a “Il Riformista” durante la direzione di Antonio Polito. Grazie ai buoni rapporti con Rocca, era diventato portavoce della Croce Rossa (v. i comunicati dell’Ufficio stampa della C.R). Se ne era parlato all’epoca dell’assunzione di alcuni neofascisti alla C.R. (segnalo su Indymedia “Sembra un ministero, è la Croce Rossa…uncinata”). Altra coincidenza, nel 2008 arrivava alla dirigenza della C.R. la moglie del Polito, Patrizia Ravaioli. .
    A questo punto, visto che qui si parla di hunger strikers, ricordo che Antonio Polito, ex direttore de “Il Riformista”, è quel giornalista che durante lo sciopero della fame contro la vivisezione del prigioniero antispecista Barry Horne (anarchico e negli anni ottanta militante dei gruppi di solidarietà con i prigionieri politici irlandesi) faceva dell’ironia nei suoi articoli pubblicati su “la Repubblica”. In sostanza diceva che stava fingendo, che mangiava di nascosto, che era un esaltato… Poi Barry Horne è morto nel modo che sappiamo. E Polito, che io sappia, non ha mai chiesto scusa. Ancora prima della morte di Barry, i suoi articoli mi erano apparsi “pilotati”. Coincidenze. O, forse, analogie.
    La vicenda di Sands e degli altri nove repubblicani morti nel 1981 ha rappresentato nel tempo una testimonianza contro le carceri speciali, contro la tortura e contro la legislazione d’emergenza. Un“grido contro l’ingiustizia”, così come la resistenza popolare, in tutte le sue molteplici forme, nei quartieri proletari di Derry e Belfast, dal Bogside a Falls road, tra gli anni sessanta e novanta.
    Le destre estreme hanno tentato di appropriarsene come avevano fatto con le lotte contro il nucleare e contro la globalizzazione, con l’ecologia e, più recentemente, anche con la liberazione animale. Un gruppo animalista del nord-est, fondato da un ex di Forza Nuova, aveva tentato di appropriarsi della memoria dell’antispecista anarchico Barry Horne. Al di là del folclore, a naso, si intravede un metodo che ricorda le infiltrazioni degli anni sessanta (e, fatte le debite proporzioni, anche alcune ambigue posizioni dei “Corpi franchi” in Germania nel primo dopoguerra).
    Sia ben chiaro. Siamo in democrazia, (anche se certamente non per merito dei fascisti) e, per quanto mi riguarda, ognuno è libero di usare i simboli che vuole. Ma senza ambiguità e chiamando le cose con il loro nome. Bobby Sands era comunque uno di sinistra, un compagno. I suoi riferimenti, oltre a Connolly e Pearse, sono stati Che Guevara, Malcom X e George Jackson (quello dei fratelli di Soledad), gli antifranchisti baschi Txiki e Otaegi fucilati nel 1975. Non certo Codreanu o Degrelle. Non si può escludere che qualche militante di destra sia in buona fede quando esprime ammirazione per gli hunger strikers. In questo caso dovrebbe riconoscere che l’antimperialismo, l’amore per la giustizia e la libertà, il rispetto per le lotte di liberazione degli oppressi (di tutti gli oppressi, s’intende) sono incompatibili con le idee totalitarie, autoritarie e gerarchiche (anche quando si dicono “di sinistra”, Stalin docet). E quindi incompatibili con il fascismo.
    Cassandra mio malgrado, agli inizi del 2011 avevo scritto “ nel trentesimo anniversario della morte dei dieci hunger strikers, sarebbe inconcepibile dover assistere alla partecipazione di neofascisti e neonazisti alle commemorazioni. Dopo la presentazione ufficiale del libro“Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese” (comunque un buon libro) da parte di Roberta Angelilli, tutto diventa possibile”. Purtroppo avevo ragione: nel maggio 2011 alle manifestazioni in memoria di Bobby Sands e degli altri hunger strikers hanno partecipato i neofascisti di Casa Pound, a fianco degli inconsapevoli militanti del Sinn Fein, ostentando il manifesto con la foto di Bobby Sands e diffondendo poi le immagini su Internet.
    Ripeto, nessun dubbio sull’onestà intellettuale dei tre autori, ma forse qualcuno dovrebbe aggiornare i repubblicani irlandesi. Fermo restando che queste ambiguità e contaminazioni restano, purtroppo, un fenomeno tipico del nostro Paese, almeno dagli anni sessanta.

    Gianni Sartori (osservatore internazionale, per conto della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, al processo di Madrid del 1997 contro Herri Batasuna)

    * Per quanto riguarda Rao, va aggiunto che il titolo stesso dei suoi libri (“La fiamma e la celtica”,“Il sangue e la celtica”…) contribuisce ad alimentare l’equivoco.

    **dati i rapporti intercorsi tra fascisti italiani latitanti a Londra e servizi segreti inglesi, non si escludono tentativi di infiltrazione nel movimento repubblicano.
    ***breve nota quasi storica
    Dopo Alesia e l’imprigionamento di Vercingetorix (assassinato a Roma sei anni dopo), la resistenza organizzata dei Galli contro Roma sembrò esaurirsi nel 51 a.C. A Uxellodunum, Giulio Cesare fece tagliare le mani agli ultimi irriducibili. Gutuater, considerato il capo religioso della ribellione, venne ucciso dopo atroci torture. Nel 21 d.C. scoppiò una rivolta guidata da Julius Sacrovir che, sconfitto, morirà gettandosi tra le fiamme per non consegnarsi ai romani. Nel 69 d. C. è Civilis a ribellarsi con la propria guarnigione. Al suo fianco, oltre a molti druidi, una profetessa, Velléda e due eminenti cittadini di Langres, Julius Sabinus e la sua sposa Eponina. Divisioni interne tra i Galli, oltre alla diffidenza della popolazione nei confronti di Civilis e degli altri capi della rivolta, porteranno all’ennesima sconfitta. Trascinati a Roma, Sabinus e la moglie verranno fatti uccidere da Vespasiano e i loro figli affidati a famiglie romane. Per altri due secoli in Gallia regnerà la “pax romana”. Nel 258 franchi e alemanni, popolazioni germaniche, varcano il Reno e invadono la Gallia. A migliaia i contadini fuggono nelle foreste dove per sopravvivere costituiscono gruppi armati, le bagaudes. Tra i loro capi emerge Elien. Quando l’imperatore Diocleziano invia truppe con l’incarico di sterminare questi ribelli, Elien stringe un’alleanza con Amandus, comandante di origine gallica della guarnigione di Bourges. Dopo la morte di Elien, anche Amandus viene sconfitto e ucciso nel corso di una battaglia sulle rive della Loira. Mentre l’impero romano va disgregandosi, la Gallia subisce nuove invasioni di vandali, burgundi, visigoti e ancora franchi. Nell’ultimo giorno dell’anno 406, vandali, svevi e alani valicano il Reno ghiacciato. Entrati in Gallia, devastano Tournai, Amiens e Arras. Dietro di loro, ancora burgundi e alemanni. Nel 451 anche gli unni superano il Reno, dopo averne “trasformato le foreste della riva in barche” invadendo la Gallia settentrionale. Guidati da Attila, saccheggiano Colmar, Strasbourg, Reims, Besancon e Arras. A Lutezia, la popolazione invece di fuggire organizza la resistenza. Attila si allontana e si dirige verso Orleans che per più di un mese resisterà all’assedio. Il 14 giugno 451, mentre inizia il saccheggio, arriva l’esercito del generale romano Aetius, formato in gran parte da mercenari e da alleati visigoti. Sconfitto, Attila si rifugia a Chalons-sur-Marne (Campi Catalaunici). Con questa battaglia (21 giugno 451) rimangono sul terreno circa sessantamila cadaveri (secondo alcuni autori quasi il triplo) e comincia il declino del “flagello di Dio”. In Occidente si formano vari regni romani-barbarici: visigoti, ostrogoti e, in Gallia, il regno dei franchi. Il resto è storia nota. Da Childerico (capostipite dei Merovingi) a Clovis (Clodoveo I, 465-511). Dopo la sua morte il regno venne diviso in Austrasia, Neustria e Burgundia. Da Charles (Carlo, “dux et princeps francorum”, soprannominato Martello per aver sconfitto pesantemente i saraceni a Poitiers nell’ottobre 732), figlio del maggiordomo d’Austrasia Pépin d’Heristal (Pipino II capostipite dei Carolingi) a Pépin nominato re da un’assemblea di nobili e vescovi nel novembre 751 e morto nel settembre 768. Nel 772 suo figlio Carlomagno organizzerà una prima spedizione contro i sassoni. Dieci anni dopo, la più sanguinosa. Oltre alla decapitazione di 4500 sassoni che rifiutavano di abbandonare la religione tradizionale e convertirsi al cristianesimo, circa 10mila saranno deportati in Gallia.

    ****Oltre agli interventi non richiesti di Borghezio, noto estimatore dell’ascia bipenne, va ricordato un episodio legato alla Falange (versione italica, non libanese o spagnola). La misteriosa organizzazione parastatale, responsabile negli anni novanta di operazioni che puzzavano di provocazione e servizi segreti, diffuse un comunicato (l’originale mi venne fornito dall’allora senatore Francesco Bortolotto, dei Verdi) in cui si minacciavano i sindaci veneti contrari all’Alta Velocità. Era firmato con la sigla della Falange e una strana aggiunta, un inesistente “gruppo Veneto-Euscadi”, scritto con la “C”. Da notare che in euskara, la lingua basca, questa lettera non esiste, sostituita regolarmente con la “k”. All’epoca, in un articolo cofirmato con Giovanni Giacopuzzi, feci notare la stranezza e suggerii la natura provocatoria del testo (“strategia della tensione a bassa intensità”?). Altra evidente incongruenza, la sinistra abertzale basca si è sempre mobilitata contro l’Alta Velocità (“AHTrik EZ, emaiezu botea!!”).

    *****Pare che il commando responsabile dell’azione del 20 ottobre contro Karl Hotz provenisse da Parigi e fosse composto da Gilbert Brustlein, Marcel Bourdarias e da un ex membro delle Brigate Internazionali, Spartaco Guisco.
    In precedenza, il 21 agosto, a Parigi alcuni membri dei Bataillon de la Jeunesse, guidato da Pierre Georges (comandante Fabien), avevano ucciso un esponente della Kriegsmarine, Moser, alla stazione del métro Barbès per vendicare due compagni fucilati il 18 dopo aver partecipato ad una manifestazione del P.C.F. Una Cour spéciale condannò a morte, su richiesta dei tedeschi, tre persone già detenute (e che quindi non avevano preso parte all’azione).

    ******In Bretagna alcune formazioni indipendentiste di destra, comunque minoritarie, presero parte ai rastrellamenti e alle torture contro altri bretoni legati alla Resistenza. E’ storicamente accertato (v. gli studi di Kristian Hamon) che i tedeschi finanziarono il Parti national breton (PNB, nato nel 1931, sciolto nel 1939 e rinato alla fine del 1940) per condizionare l’amministrazione di Vichy con la minaccia di una Bretagna indipendente sotto la tutela di Berlino. Studi recenti hanno ridimensionato il numero degli aderenti al PNB (non più di 1500, di cui due-trecento attivisti). All’interno del partito convivevano simpatizzanti sia del nazismo tedesco che del fascismo italiano e anche qualche ammiratore della Falange spagnola. Mentre il principale ideologo del partito, Olier Mondrel, si dichiarava apertamente nazista il presidente (fino al 1944) Raymond Delaporte veniva considerato un “conservateur modéré”. I Bagadoù stourm (“gruppi di combattimento”, sulle loro bandiere il triskell) costituivano il movimento giovanile del PNB e fornirono qualche decina di militanti al Bezen Perrot, una formazione militare fondata da Célestin Lainé dopo l’uccisione dell’abate Perrot, a Scrignac nel dicembre 1943. Sorto come “servizio d’ordine”, ben presto il Bezen Perrot si trasformò in milizia collaborazionista, indossando la divisa germanica, combattendo a fianco dei tedeschi e partecipando a rastrellamenti, interrogatori, torture ed esecuzioni di partigiani. Va sottolineato che l’occupazione nazista incontrò anche in Bretagna una forte opposizione e in varie occasioni (v. a Landerneau nel 1943) la popolazione aveva mostrato disapprovazione per quei militanti di Bagadoù stourm che sfilavano al passo dell’oca e vestiti di nero.
    Ordinato sacerdote nel 1903, Jean-Marie Perrot (Yann-Vari Perrot in bretone) aveva vissuto come un abuso il divieto, risalente al 1902, di insegnare il catechismo in bretone. Per salvaguardare la lingua nazionale organizzò a Saint-Vougay (Finistère) un gruppo teatrale (Paotred Sant-Nouga) e in seguito un movimento, Bleun brug (Fiore di brughiera, in riferimento al congresso interceltico di Caernarvon del 1904 che aveva adottato questo fiore come simbolo). Divenuto associazione nel 1912, il Bleun brug rinascerà dopo la guerra, nel 1920. Perrot scrisse anche molti articoli in difesa della lingua bretone, articoli apparsi regolarmente sulla rivista religiosa Feiz ha Breiz (“Fede e Bretagna”). Forse a causa del suo impegno, giudicato eccessivo dalle autorità ecclesiastiche, Perrot verrà assegnato alla parrocchia di Scrignac, notoriamente anticlericale e dove si formerà una consistente presenza di FTP (Francs-Tireurs et Partisans). La vera identità dei suoi uccisori non venne mai definitivamente stabilita. Nel dopoguerra seguaci di De Gaulle e comunisti si rinfacciarono la responsabilità con reciproche accuse, ma non si può nemmeno escludere una responsabilità di quei bretoni che poi gli dedicarono la milizia denominata Bezen Perrot. Poco prima di venir assassinato, l’abate Perrot aveva duramente condannato Cèlestin Lainé per il suo neo-paganesimo. Un altro gruppo paramilitare bretone che prese parte attiva agli interrogatori e alle torture dei partigiani fu il meno conosciuto Kommando Landerneau. A queste formazioni collaborazioniste degli anni quaranta, si richiameranno apertamente gli indipendentisti di estrema destra dell’Adsav.
    G.S.

  3. APPELLO
    Invio questo “frammento di memoria” per sottolineare la mia estraneità all’illustre politologo GIOVANNI Sartori con cui recentemente sono stato confuso (a sinistra) e quindi criticato per alcune sue dichiarazioni in materia di immigrazione. Come traspare da questo mio articolo, per quanto datato, la mia concezione del mondo (con tutto il rispetto per lo spessore culturale del mio QUASI omonimo) è un poco diversa. E naturalmente ho ancora meno a che fare, ca va sans dire, con un altro Gianni Sartori (questo sì, purtroppo, omonimo) che imperversa su vari siti (del Giornale , sul sito di Grillo per es.) lanciando offese e minacce (“merde”, “tre metri di corda…” etc) nei confronti di sinti, rom, immigrati e “comunisti”. Ribadisco che non siamo neanche lontanamente parenti (in tutti i sensi). Tra l’altro mia nonna era sinta (e mio nonno cimbro) per cui…
    ciao e grazie per l’ospitalità
    Gianni Sartori

    CORREVA L’ANNO 1970… (Eride e i suoi fratelli)
    (Gianni Sartori)
    Era una nebbiosa serata di novembre. L’anno il 1970. Dopo la riunione, avevo accompagnato Tiziano Zanella verso casa. Progetti, speranze, dubbi che si affacciavano alla mente di due diciottenni già schierati politicamente e poco disposti a pazientare. A dire il vero, anche se sarebbe più in sintonia, la riunione non era per organizzare manifestazioni o picchetti, ma una spedizione alla grotta denominata “Buso della Rana”, all’epoca ancora la più lunga d’Italia (tra quelle conosciute, ovviamente). Presumo quindi fosse venerdì, serata canonica per gli incontri del Club Speleologico Proteo. Lo stradone dello stadio affogava nella densa nebbia che fuoriusciva dal fiume Bacchiglione. A mala pena si distingueva un alone lattiginoso attorno ai lampioni. I tigli siberiani sull’argine, ombre nere che si perdevano verso l’alto. Impossibile distinguere il ponte della ferrovia e, sull’altra riva, il piccolo monumento ai “Dieci martiri”. Tra i giovani resistenti fucilati dai fascisti sulla striscia di terra che separa il Bacchiglione dal Retrone, anche due rom.
    Improvviso un rumore di passi nelle tenebre, forse una voce. Un’immagine che ricorderò per sempre. Cinque figure allineate, di corsa, che si tenevano per mano occupando quasi l’intera carreggiata. Nessuno restava indietro. Sull’argine, per un attimo, due sagome evanescenti subito dissolte. Le persone in realtà erano sei. Una madre con i suoi figli. Il più piccolo, avvolto in uno scialle, appeso al collo.
    La donna, una “singana” nel linguaggio politicamente scorretto di quando non si sapeva di sinti e di rom, raccontò di essersi accampata nello spiazzo lungo la ferrovia, vicino al vecchio Foro boario, uno dei luoghi dove periodicamente si fermavano carovane in transito.
    Ci spiegò che due individui (le ombre intraviste sull’argine) avevano tentato di entrare con chiare intenzioni. Preoccupata soprattutto per la figlia quattordicenne, era immediatamente fuggita portandosi appresso tutta la famiglia. Raccontò di essere stata recentemente abbandonata dal marito che se ne era andato con la loro roulotte e di vivere in una tenda, dono di un medico benefattore. Fino a qualche giorno prima il campo aveva ospitato alcune carovane. Ma poi erano partite per Milano e loro erano rimasti soli, in attesa che qualcuno li aiutasse a trasferirsi dall’altra parte della città. A Sant’Agostino, dove agli inizi degli anni settanta stazionavano sempre piccoli gruppi di nomadi.
    La donna, nonostante la situazione, dimostrava un forte carattere e non voleva assolutamente ritornarsene nella tenda. I loschi individui avrebbero potuto ritornare. Che fare? Alla fine, dopo aver ampiamente dibattuto, pensammo di risolvere la situazione ospitando provvisoriamente la famiglia in una qualche sede di quelle che frequentavamo abitualmente . Una telefonata per strappare al sonno un dirigente politico, discussione animata (per gli ideologi operaisti ortodossi gli “zingari” erano lumpenproletariat di cui diffidare) e alla fine consegna delle chiavi. Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare presenti a Vicenza erano allora una mezza dozzina. Per quella notte trovammo ospitalità a “Potere operaio”, nella vecchia sede di S.Caterina, la prima. Mettemmo a disposizione la sala delle riunioni (dove troneggiavano due manifesti di Marx e Lenin:“ma quello chi è, tuo nonno?”) dove dormirono avvolti nelle coperte che, prudentemente, si erano portate via prima di scappare, mentre noi restammo a far la guardia tra il corridoio e il ciclostile. Un paio di notti freddissime, nonostante l’eskimo. Nei giorni successivi ci occupammo del trasloco, effettuato con uno di quei carretti a pedali che circolavano ancora in città. Per più di un anno frequentai il campo dove si erano stabiliti contribuendo con collette e doni in viveri. Determinante, sia per umanità che per doti organizzative, il ruolo del futuro dott. Dino Sgarabotto che successivamente avrebbe confermato la sua tempra umanitaria in Kenya con il CUAM.
    La madre dei bambini raccontava di essere sfuggita, in tenera età, allo sterminio della sua famiglia. Un giorno dei funzionari erano venuti a cercarli in una località “vicino a Trieste” (poteva trattarsi anche dell’Istria) per portarli a “fare gli esami del sangue” e nessuno di loro fece più ritorno. In quel momento lei era in giro, a giocare, e una sua cugina (che evidentemente aveva mangiato la foglia) si offrì di restare ad aspettarla per poi recarsi in”ambulatorio”. Appena la bimba fu tornata, la cugina l’afferrò e cominciò a correre, a scappare lontano.
    Davo per scontato che la famiglia fosse stata distrutta per mano dei nazifascisti, ma poi qualcuno (forse un “revisionista”?) suggerì che avrebbero potuto trovarsi anche tra le vittime delle foibe. Molti di loro infatti erano classificati come “profughi giuliani”. Lo scoprii quando, in occasione delle elezioni, venivano nel campo per comprarsi qualche voto gli esponenti di un partito ben noto. Ma non certo per il suo antirazzismo. Missini senza scrupoli che al danno aggiungevano anche le beffe. La conferma che era stata opera dei nazifascisti (in una data imprecisata, ma comunque dopo l’8 settembre 1943) la ebbi quando mi recai, su loro richiesta, al Comune di Trieste (in autostop) per ritirare alcuni documenti. Dalle carte si intuiva che la prima tappa del viaggio verso la desolazione e la morte era stata a San Sabba, la “risiera”.
    Nessuno dei cinque figli frequentava la scuola anche se tre di loro ne avevano l’età. Sette, otto e quattordici anni. Cominciai quindi a dare lezioni, all’aperto, anche d’inverno. Talvolta con il terreno ricoperto di neve. Avevamo trovato una stanza, messa a disposizione da una signora di buon cuore, ma loro preferivano così. La cosa avveniva in maniera del tutto “spontaneista” (oltre che, sicuramente, velleitaria) dato che diffidavo delle varie associazioni impegnate all’epoca a “riadattare i nomadi” (come da statuto). Qualche problema anche con alcuni compagni che si occupavano esclusivamente di “classe operaia” dura e pura. Anche se poi, diversamente da chi scrive, a lavorare in fabbrica nessuno di loro c’è mai andato. In compenso qualcuno di loro avrebbe visto volentieri gli zingari alla catena, anche se solo di montaggio*. Da parte mia (dato che la Rivoluzione sembrava ormai dietro l’angolo) ritenevo fosse giusto “non lasciare indietro nessuno”. Talvolta succede, da giovani, di volare alto. Malattia infantile da cui si può comunque guarire.
    Studente-lavoratore, trascorrevo parecchie notti da “Domenichelli” a scaricare e “stivare” camion. Di solito mi recavo al campo nel pomeriggio, prima di iniziare il turno. Altre volte di mattina, quando staccavo. Ovviamente non tutti i giorni, sicuramente molto meno di quanto sarebbe stato necessario. Ma con l’aiuto di alcune amiche del “Fogazzaro” (ricordo in particolare due compagne, Rosanna Rossi e Chiara Stella) qualcosina riuscimmo a insegnare. Anche perché i bambini erano svegli, soprattutto Eride, la più grande. Ne avemmo conferma un paio d’anni dopo che se ne erano andati, a Milano. Sul “Corriere della sera” venne pubblicata una sua lettera bellissima (forse un po’ strappalacrime, ma a fin di bene) che suscitò un’ondata di solidarietà nei confronti della sfortunata famigliola.
    Per il sottoscritto c’era stato qualche piccolo precedente rivelatore. Una mezza denuncia, due anni prima (nel “68”) per aver tolto (“divelto”) alcune tabelle di “Sosta vietata ai nomadi”. In seguito, partiti i miei amici per Milano, non ricordo di averne frequentati altri per parecchi anni, almeno in Italia. Invece all’estero non mancarono occasioni di confronto e talvolta anche di “scontro”, come quando in Bosnia venni inseguito per essermi avvicinato a un accampamento con macchina fotografica. Ricordo, in Guipuzkoa, un militante del movimento antinucleare Eguzki che rivendicava di essere “un basco di origini gitane” e i Tinkers accampati tra il Bogside e il Craigsvon Bridge, a Derry, in Irlanda del Nord (in realtà i Tinkers avrebbero scelto il nomadismo in epoca relativamente recente, per imitazione).
    Nel 1987 proposi ad un settimanale locale di “area progressista” (Nuova Vicenza) alcuni articoli sui campi nomadi del vicentino, via Cricoli in particolare. Visitai, venni invitato a pranzo, partecipai a qualche battesimo, matrimonio e funerale e scattai molte fotografie su richiesta. In una di queste, tempo dopo, riconobbi Paolo Floriani, un ragazzino destinato a morire tragicamente a causa di un inseguimento impietoso da parte della polizia. La sua corsa finì a Debba nel fiume Bacchiglione, in novembre, dopo aver salvato la vita dell’amico Davide che stava per annegare. **
    Come potei documentare, mentre i due sinti fuggivano in motorino per i campi (il giorno dopo restavano ancora i segni delle ruote sull’erba di un vigneto e ne conservo le foto), la polizia aveva sparato, probabilmente in aria. Dal punto dove si era buttato in acqua a quello in cui era annegato c’era una distanza di circa cento metri. Braccato da una riva all’altra, aveva attraversato il fiume quattro volte prima di affogare. Partecipai ai funerali di Paolo e il mio articolo, in cui lo definivo “vittima di razzismo istituzionalizzato, di Stato”, non venne mai pubblicato dal solito settimanale “progressista” (per non aver rogne con le autorità, mi spiegarono). Diventò un volantino di denuncia, firmato dalla sez. di Vicenza della “Lega per i diritti e le liberazione dei popoli” e per quel testo rischiai una querela.*** Ma questa è un’altra storia.
    Gianni Sartori

    * solidarietà, invece, dai compagni del M.A.V. (Movimento anarchico vicentino, ricordo Claudio Muraro, Rino Refosco, i fratelli Anna ed Enrico Za, Laura Fornezza, Stefano Crestanello, Guido Bertacco, Alberto Pento, Gianni Cadorin… che nello stesso periodo difendevano la dignità di altri “marginali”, i reclusi dell’ospedale psichiatrico. Con il sostegno del compianto Sergio Caneva, medico e partigiano.

    ** Per saperne di più vedi: “Nomadi e scomodi” su A, rivista anarchica n. 187, dicembre 1991 e anche “la morte di tarzan” sempre su A, Rivista anarchica n. 206, febbraio 1994

    *** L’autore di un discutibile articolo sulla morte di Paolo, un ex di Lotta Continua, pubblicato dal Giornale di Vicenza non aveva gradito di essere stato “messo in discussione” nel volantino.

  4. “Grazie per l’ospitalità”… Mi pare piuttosto un’occupazione 🙂
    Scherzo, però trovo che non abbia molto senso, per un blog come questo, il tuo modo di interagire.

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