Ebbene sì, sembra che in Italia si possa licenziare tranquillamente

Ieri sera si è tenuto a Pavia l’incontro pubblico dal titolo Ma davvero in Italia non si può licenziare? Relatori il sottoscritto e Giacomo Galazzo, consigliere provinciale del PD a Pavia. Nonostante Galazzo, a differenza della gran parte dei parlamentari del PD, si sia dichiarato a favore del mantenimento dell’articolo 18 e in generale delle tutele per i lavoratori (confesso che speravo invece in un contraddittore in stile Ichino!) il dibattito è stato vivace e – a detta dei partecipanti – interessante, anche grazie all’ottima conduzione della moderatrice Maria Elena Scandaliato. Tra il pubblico anche due delegati sindacali della Elnagh di Trivolzio, i cui interventi hanno decisamente stimolato e dato concretezza alla discussione.

Ecco il mio intervento, più o meno:

 

La discussione in corso da mesi sulle varie ipotesi di riforma del lavoro, sulla stampa e in Parlamento, sembra aver trovato nell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il capro espiatorio della crisi economica. Secondo i commenti di economisti, giuslavoristi, esponenti delle forze politiche che sostengono il governo Monti, l’abolizione dell’Articolo 18 porterebbe equità nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, maggiori tutele e occasioni per i precari, sviluppo economico anche attraverso maggiori investimenti di imprenditori stranieri, che oggi sarebbero invece spaventati dalla difficoltà di licenziare.

Ma è proprio così?

SPOILER

No.

E perché allora proprio l’Articolo 18 viene preso di mira tanto ferocemente? Cerchiamo di capirlo.

Che cos’è l’Articolo 18

L’assunto di fondo di tutte le proposte di modifica dell’Articolo 18 è che questa norma impedirebbe, o renderebbe quasi impossibile, licenziare in Italia. Questo assunto è semplicemente falso. In Italia, come del resto in quasi tutti i Paesi europei, il licenziamento individuale è consentito sia per ragioni economiche oggettive che per ragioni soggettive (giusta causa o giustificato motivo). Il licenziamento collettivo è consentito anche senza bisogno di alcun accordo sindacale sempre per ragioni economiche, come sanno purtroppo bene ad esempio i lavoratori della Elnagh di Trivolzio. L’Articolo 18 entra in scena soltanto quando il licenziamento è dichiarato illegittimo (perché immotivato, quindi di fatto arbitrario o discriminatorio) da un giudice: è una sanzione che punisce un comportamento considerato illecito dalla legge. Come lo punisce? Disponendo un risarcimento che compensa il lavoratore per il periodo in cui non ha potuto lavorare per colpa del licenziamento illegittimo, e lasciando al lavoratore la scelta se chiedere la reintegrazione o un’ulteriore indennità di 15 mesi di stipendio. Il tutto vale per le sole aziende con più di 15 dipendenti.

Perché attaccare il diritto alla reintegrazione

Basta usare il buon senso per capire che diminuire la sanzione per un comportamento illegittimo significa incoraggiare l’abuso. È significativo che a essere attaccato di più sia proprio il diritto di chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro: una delle argomentazioni che si sentono più spesso è che tanto nella maggior parte dei casi il lavoratore che ottiene una sentenza favorevole opta per l’indennità invece della reintegrazione, quindi tanto varrebbe lasciare solo il risarcimento economico e togliere del tutto la possibilità di essere reintegrati.

Ma questo è un Paese in cui una delle aziende più grosse e importanti, la FIAT, viene condannata a reintegrare tre lavoratori licenziati illegittimamente, a Melfi, e dichiara che piuttosto continuerà a pagarli per non fare niente, ma quelli in fabbrica non ci metteranno più piede. Capite quant’è importante che esista il diritto a essere reintegrati in caso di licenziamento illegittimo: per un’azienda come la FIAT spendere 50.000 Euro di risarcimento non costa nulla, quel che le importa è poter decidere chi lavora e chi no, lasciando fuori chi crea problemi. Questo è soltanto un esempio ma potrebbero farsene centinaia. È soltanto il diritto alla reintegrazione che mette un argine all’arbitrio totale del datore di lavoro: toglierlo significa lasciare tutti i lavoratori in balia del potere di ricatto dei datori, disarmarli di fronte a ogni peggioramento delle condizioni di lavoro perché chi si lamenta non lavora più.

Certo, in tutti i progetti di riforma si dice che l’Articolo 18 verrebbe lasciato per i licenziamenti discriminatori. Ma è ovvio che nessun licenziamento viene mai motivato in questo modo, e provare che la discriminazione è l’unica causa del licenziamento è spesso quasi impossibile. Basterà allora che l’azienda scriva che il licenziamento è motivato da ragioni economiche, anche le più assurde, per aggirare l’obbligo di reintegrazione.

Il vero motivo per cui si attacca l’Articolo 18 è proprio questo: lo scopo è lasciare al singolo datore di lavoro il potere assoluto sulla gestione dell’azienda, togliendo qualsiasi tipo di vincolo e di controllo. In fondo, ma nemmeno tanto in fondo, è lo stesso scopo dell’art. 8 della manovra di Ferragosto che consente ai contratti aziendali di derogare alla legge. È interessante che il Parlamento abbia votato in settembre un ordine del giorno per impegnarsi a correggere quella norma, ma a tutt’oggi nessun partito abbia fatto alcun passo concreto per farlo.

L’Articolo 18 e i precari

Tutte le altre motivazioni che vengono fornite della necessità di modificare l’Articolo 18 non reggono alla prova dei fatti.

Una delle più frequenti è che diminuendo la tutela per gli occupati “stabili” si migliorerebbero le condizioni dei precari. Ora, a parte il fatto che non si capisce per quale misterioso meccanismo alleggerire le sanzioni dei licenziamenti illegittimi – e quindi incoraggiarli – dovrebbe avvantaggiare i precari, va pure detto che tutti i progetti di legge presentati in Parlamento da esponenti del Partito Democratico (Ichino, Nerozzi, Madia) prevedono espressamente la possibilità di stipulare contratti a termine, in somministrazione (interinali) o a progetto. È vero che sono indicati dei limiti a questo tipo di contratti, ma limiti del tutto analoghi sono già previsti oggi, e non impediscono affatto il proliferare della precarietà: le aziende generalmente se ne fregano e assumono a termine o a progetto anche quando non dovrebbero, tanto i controlli sono pressoché inesistenti e il loro potere di ricatto è tale che in pochissimi fanno causa.

Ecco allora che aumentare il potere dei datori di lavoro, eliminando il diritto alla reintegrazione per i lavoratori stabili, danneggia pure i precari perché favorisce in generale un sistema basato sull’estorsione: o ti va bene così o te ne vai.

Al contrario, se si vuole ridurre la precarietà, l’unico modo è limitare l’arbitrio dei datori di lavoro, cominciando intanto ad aumentare risorse e poteri degli Ispettorati del Lavoro. Ma nessuno dei partiti che in questo momento sono al governo ha proposto nulla del genere, né di abrogare le norme, come quelle contenute nel Collegato lavoro dell’ottobre 2010, che ostacolano gravemente i precari che vogliono impugnare i loro contratti.

L’Articolo 18 e lo sviluppo economico

L’altra motivazione molto utilizzata contro l’Articolo 18 è che frenerebbe lo sviluppo economico, disincentivando soprattutto gli investimenti di imprenditori stranieri.

Curiosamente, sono più o meno le stesse motivazioni usate per sostenere la necessità di costruire il TAV in Val di Susa: in un caso come nell’altro, si tratta di affermazioni ben lungi dall’essere dimostrate e in effetti non dimostrabili, perché prive di qualsiasi fondamento.

Nel caso della tutela contro i licenziamenti illegittimi, c’è anche da chiedersi che tipo di sviluppo economico e di investimenti stranieri desideriamo: da fantomatici imprenditori spinti a investire soltanto dalla possibilità di licenziare arbitrariamente a basso costo, credo ci sarebbe ben poco da aspettarsi.

Del resto, l’estrema libertà di licenziare di cui godono fin da prima della crisi gli imprenditori greci, grazie a un ordinamento fra i più “flessibili” d’Europa, non ha certamente impedito il disastro economico da quelle parti.

Conclusione

La lotta per la difesa dell’Articolo 18 è centrale in quella più generale per la democrazia e per condizioni di vita migliori per tutti i lavoratori e i cittadini. Il riferimento al TAV non è casuale, come dimostra la partecipazione del movimento No TAV allo sciopero e alla manifestazione della FIOM del 9 marzo (e la parallela decisione del PD di non partecipare a quella manifestazione): in entrambi i casi si combatte contro un modello che vorrebbe imporre, nelle aziende come in generale nella società, il principio del potere assoluto e arbitrario di chi comanda ai danni di chi sta sotto. A questo modello contrapponiamo invece quello della partecipazione dal basso, della democrazia e dei diritti.

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10 comments

  1. Sarò manicheo, vetero, retro e tutto quel che si vuole, ma a secondo me stiamo assistendo (e non da qualche giorno…) ad un ritorno in grande stile del capitalismo più selvaggio.
    Quello che hanno conosciuto i nostri nonni, se non i nostri… bisnonni.
    L’abolizione dell’art. 18 (o la sua neutralizzazione di fatto, anche se non di diritto) è evidentemente funzionale alla creazione di un mercato del lavoro semi-schiavistico, in cui l’idea stesso di “diritto del lavoro” e dei lavoratori sarà equiparato ad una follia o ad una bestemmia.
    Ma come diceva S. Agostino nella “Città di Dio”, senza la giustizia “che cosa sono gli Stati se non magna latrocinia, grandi associazioni di delinquenti”?
    E nel “Capitale” (libro I) Marx descriveva l’utilizzo in fabbrica dei ragazzi in base al “sistema dei relais”, che richiamava sia in inglese che in francese “il cambio dei cavalli di posta in varie stazioni.”
    Piuttosto significativa, la faccenda… perché i padroni (altro termine forse retro ma dannatamente necessario) non fanno mai niente di casuale… neanche dal punto di vista simbolico (richiamare l’idea del lavoratore come assimilabile alla bestia).
    Repetita iuvant: temo e… tremo che l’obiettivo finale sia un revival di quel tipo di società!
    Concludendo: leggo con piacere il tuo parere, come avvocato del lavoro della sentenza della Corte d’assise di Potenza, relativa al reintegro dei 3 operai di Melfi che la Fiat ha bellamente ignorato.
    Si tratta, a mio modestissmo parere di un atto oltre che moralmente anche giuridicamente inaccettabile.
    Scusa la lunghezza.
    Ciao

  2. Da come ho scritto si potrebbe forse pensare che io sia un avvocato del lavoro, mentre non lo sono. Quando parlavo di avv. del lavoro mi riferivo evidentemente a te.

  3. Grazie del commento!
    E hai ragione, non siamo noi a essere manichei, ma è proprio la fase attuale del conflitto di classe a essere più acuta che mai e a imporre a tutti una scelta: o con i lavoratori, per i diritti e la democrazia, o con i padroni, per il profitto, lo sfruttamento e la mafia. Val Susa docet.

  4. In generale penso che l’art. 18 debba essere mantenuto, tranne che per un caso, il licenziamento economico soggettivo in relazione ai lavoratori che per motivi di salute hanno cambiato la mansione per cui furono assunti.
    Penso che, tranne per i lavoratori sposizionati per infortuni o malattie professionali, i lavoratori divenuti inabili alla precedente mansione, possano essere licenziati; spetta ordunque all’INPS preoccuparsi di quest’ultimi, come d’altronde prevederebbe la Costituzione (artt. 32 e 38).

  5. Leonardo, c’è un equivoco di fondo nel tuo discorso.
    Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che è esattamente l’esempio che fai tu, è già assolutamente consentito (così come quello per giustificato motivo oggettivo e quello per giusta causa), *se la motivazione esiste veramente e non è inventata dal datore*.
    L’articolo 18 serve a punire, con l’obbligo di reintegrazione (o l’indennizzo a scelta del lavoratore), l’imprenditore che licenzia dando una motivazione falsa.
    Il tuo commento è il sintomo della scarsissima informazione – quando non proprio disinformazione – su questo argomento: su questa disinformazione fa leva il governo per far passare una riforma davvero tragica per milioni di persone.

  6. Qui non è in gioco il “poter licenziare”, ma è in gioco il “dover reintegrare” nei casi in cui si accerta che il licenziamento non era lecito o valido. L’articolo 18, in altre parole, non è una norma “per il datore di lavoro” che àltera la gestione del personale; ma è una norma “per il giudice” che prescrive di ordinare la reintegrazione in tutti i casi in cui si accerta l’invalidità o l’inefficacia del licenziamento.

  7. Anche se si tratta ancora di una “proposta” di riforma, secondo te Avvocato Laser, di fatto cosa potrebbe cambiare ad un qualsiasi impiegato in impresa con più di 15 dipendenti? Siccome si tratta di licenziamenti individuali (Art.18) se non sbaglio, in caso di difficoltà economiche l’azienda potrà licenziare ad lipbitum uno, due, tre, 4000 dipendenti?…

  8. Innanzitutto, sembra che i licenziamenti collettivi non vengano toccati. Del resto c’era poco da toccare, dal momento che già lì le imprese possono fare quello che gli pare, salvo rispettare procedure di consultazione con i sindacati, comunque non vincolanti. Il licenziamento è collettivo quando coinvolge almeno 5 lavoratori per identiche ragioni economiche nell’arco di 4 mesi.
    In generale, se passerà la riforma, i dipendenti di aziende con oltre 15 dipendenti devono aspettarsi una pesante compressione di diritti e retribuzioni. Saranno soprattutto i lavoratori più anziani (quelli che hanno un costo aziendale maggiore) a subire pressioni sempre maggiori perché se ne vadano, o a essere direttamente licenziati con fantasiose giustificazioni di tipo economico: un indennizzo costa comunque meno di un posto di lavoro.
    Il ricambio della forza lavoro avverrà sempre di più con contratti di apprendistato – quasi tutti farlocchi – ossia con retribuzione ridotta e possibilità per il datore di lavoro di recedere dal rapporto al termine del periodo di apprendistato. Cosa che sicuramente avverrà con grande frequenza.
    Altro che “maggiore equità”…

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