La CGIL che non vogliamo

Sdegno e rabbia. Questo effetto mi provoca la lettura dell’accordo firmato ieri da Confindustria, CISL, UIL (e fin qui nessuna sorpresa) e CGIL. Mi auguro che questi sentimenti siano condivisi dai milioni di lavoratori che da oggi rischiano di perdere parecchi diritti, e che la battaglia contro questa intesa sia appena cominciata. Non pretendo certo di essere un Landini o un Cremaschi, ma provo lo stesso a spiegarne le ragioni.

I due principi contrapposti che si confrontano nei rapporti tra sindacati e padronato sono, da sempre, due: per i lavoratori, L’unione fa la forza; per le aziende, Divide et impera. La discussione sulla maggiore o minore importanza della contrattazione aziendale (di secondo livello) rispetto a quella nazionale è tutta qui, comunque la si voglia girare: più ampio è il tavolo, maggiore è la forza dei sindacati nel rivendicare migliori condizioni di lavoro e di paga per tutti i lavoratori; più si restringe il campo, al singolo territorio o alla singola azienda, minore è l’autorità di chi contratta per i lavoratori e maggiori le pressioni che il datore di lavoro può esercitare. Chiunque abbia mai lavorato in un’azienda comprende perfettamente questo semplice ragionamento e sa che corrisponde alla realtà.

È evidente perciò che la firma di un accordo che in premessa recita “è comune l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello“, rappresenta inequivocabilmente una resa da parte della CGIL: una resa tanto più amara perché non ha neppure provato a lottare, prima. Ma la questione ovviamente non è soltanto, e neppure principalmente di principio: il problema è invece come una premessa tanto minacciosa venga articolata nel contenuto dell’accordo. Vediamolo:

1. Peggio soli…

Come si decidono i contratti aziendali? Nelle aziende in cui c’è una rappresentanza sindacale eletta da tutti i dipendenti (RSU) è sufficiente l’accordo della maggioranza dei rappresentanti: viene eliminata la possibilità di coinvolgere nella decisione tutti i lavoratori dell’azienda con un referendum (come è successo nell’ultimo anno a Pomigliano e Mirafiori). Si dirà che la RSU è diretta emanazione della volontà dei lavoratori (e anche che sia a Pomigliano che a Mirafiori i lavoratori alla fine hanno confermato l’accordo): rispondo che si indebolisce di molto la forza della RSU isolandola, cioè togliendo la possibilità di ottenere il sostegno diretto degli altri lavoratori al momento di prendere le decisioni più delicate. Uno dei tanti modi con cui questa clausola torna estremamente utile ai datori di lavoro.

2. Chi rompe paga

I contratti collettivi aziendali possono definire “clausole di tregua sindacale” (io leggo: “impegni a non scioperare”) che sono vincolanti per tutte le associazioni sindacali firmatarie dell’accordo. Anche se il vincolo non riguarda il singolo lavoratore, si tratta comunque di una forte limitazione al diritto di sciopero, mirata a disinnescare l’arma principale a disposizione dei lavoratori per ottenere condizioni migliori o evitare accordi al ribasso.

3. Scritti sulla carta igienica

Così sembrano i contratti collettivi nazionali, al cospetto di contratti aziendali che “possono definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro“, e in particolare “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro“. In parole povere, in cambio di vaghe promesse di investimenti futuri o sotto il ricatto della minaccia di chiudere o esternalizzare la produzione, le condizioni di lavoro possono essere peggiorate sotto i livelli minimi previsti dai contratti nazionali. E la responsabilità di prendere queste decisioni sulla pelle di tutti i lavoratori viene delegata alle rappresentanze aziendali e territoriali, cioè all’anello debole della catena sindacale.

4. Tutto il male viene per nuocere

Chiude l’accordo l’ennesima dichiarazione d’intenti, con cui la CGIL, insieme alle altre parti contraenti, dichiara l’intento di voler “incrementare, rendere strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte ad incentivare la contrattazione di secondo livello che collega aumenti di retribuzione al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività nonché ai risultati legati all’andamento economico delle imprese“.

Ecco perché la contrattazione aziendale dovrebbe convenire ai lavoratori, secondo i suoi interessati sostenitori: per collegare le retribuzioni all’andamento economico delle imprese. Nel bel mezzo della crisi, è proprio una buona idea.

Secondo Susanna Camusso, che con la firma di questo accordo porta definitivamente a compimento la mirabolante impresa di far rimpiangere l’ex segretario della CGIL Guglielmo Epifani, “il senso di questo accordo è aprire una stagione nuova“. L’inverno, aggiungo io.

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