Dalle mobilitazioni degli studenti alle lotte degli operai

Domani, 11 maggio, alle 12.30 si terrà nel cortile della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano, in via Conservatorio, un’assemblea pubblica organizzata da un collettivo studentesco (Assemblea Studenti Scienze Politiche) sul tema delle condizioni di lavoro e delle lotte nell’epoca della crisi.

Interverranno operai della INNSE di Lambrate, della Mangiarotti Nuclear di Milano (in presidio permanente contro la dismissione della fabbrica), della Colombo di Agrate Brianza (in cassa integrazione dopo la chiusura dell’azienda). Sono stato invitato a partecipare anch’io, per parlare della riforma del lavoro (e in particolare del famigerato ddl 1167-B). Se qualcuno capita da quelle parti, credo possa essere un’iniziativa interessante, specialmente per le testimonianze di chi ha lottato e lotta per difendere il suo posto di lavoro e mostrare che esiste una soluzione alla crisi economica che passa non da ulteriori sofferenze per la classe lavoratrice, ma dal taglio dei profitti della classe capitalista.

Per quanto mi riguarda, grosso modo il mio intervento sarà questo:

DDL 1167: iter parlamentare.

Nel disinteresse generale, il “collegato lavoro” ha fatto la spola per due anni tra un ramo e l’altro del Parlamento.

Approvato ai primi di marzo, è stato rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica, anche in seguito al clamore e alle reazioni diffuse, rivolti soprattutto contro la minaccia, stavolta “sottomarina” invece che diretta, all’art. 18.

Negli scorsi giorni è stato approvato dalla Camera un testo parzialmente modificato, apparentemente proprio per accogliere le critiche e le proteste.

Ora dovrà essere approvato nuovamente dal Senato, probabilmente entro fine mese, e se non ci saranno ulteriori modifiche diventerà definitivo ed entrerà subito in vigore.

Clausole compromissorie e arbitrato.

Partiamo proprio dalle parti modificate, che riguardano quasi esclusivamente l’introduzione delle clausole compromissorie e dell’arbitrato in materia di lavoro.

Nella versione originale il disegno di legge prevedeva che all’atto della stipula di un contratto di lavoro subordinato le parti potessero scegliere “di comune accordo” di inserire delle clausole in base alle quali, in caso di controversie, a decidere fosse non il Tribunale ma un collegio di arbitri. Il “comune accordo” ovviamente è una farsa: il datore di lavoro ha sempre il coltello dalla parte del manico in questi casi, e avrebbe tranquillamente potuto ricattare il lavoratore del tipo “O firmi o ti cerchi un altro posto”.

L’arbitrato ha una serie di svantaggi enormi per il lavoratore, rispetto a un giudizio in Tribunale: è costoso, ha molte meno tutele per la parte debole perché parte dall’assunto che i due contendenti siano sullo stesso piano, è difficile da impugnare se si perde. Soprattutto, gli arbitri possono decidere “secondo equità” e quindi non devono necessariamente applicare le leggi.

In particolare, la proposta iniziale prevedeva che potessero essere decise da arbitri anche le controversie in tema di licenziamento. Qui stava l’attacco all’art. 18: se gli arbitri possono giudicare un licenziamento illegittimo senza dover applicare le leggi, sono anche liberi di non ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro, ma magari soltanto un risarcimento in denaro.

Giustamente si è levata una protesta immediata e ampia contro questa minaccia. Che ha avuto il torto, però, secondo me, di concentrarsi esclusivamente su questa parte del disegno di legge, tralasciando completamente il resto.

Le proteste comunque sono servite, visto che il Presidente della Repubblica prima, e la Camera poi hanno chiesto e formulato modifiche che di fatto annullano ogni rischio di disapplicazione dell’art. 18. In sintesi, le modifiche sono queste:

–          la clausola che obbliga il lavoratore a rivolgersi agli arbitri invece che al Tribunale potrà essere stipulata soltanto dopo la fine del periodo di prova, o comunque dopo 30 giorni dall’inizio del rapporto (non che questo riduca di molto il potere di ricatto del datore di lavoro);

–          soprattutto, non potrà essere decisa in nessun caso da arbitri nessuna controversia riguardante la cessazione del rapporto di lavoro: quindi l’art. 18 è salvo;

–          in ogni caso, la decisione degli arbitri potrà essere impugnata davanti al Tribunale del Lavoro.

Il rischio per l’art. 18 quindi, per il momento, è sventato. Restano però tutti gli altri effetti negativi della legge, che non sono stati neppure sfiorati, di cui si è parlato decisamente troppo poco, e che sono secondo me anche più pericolosi per le condizioni dei lavoratori in Italia.

Nuove decadenze, tutti più precari.

Diventa più complicato impugnare il licenziamento per i lavoratori a tempo indeterminato: non basterà più la lettera di impugnazione entro 60 giorni, ma occorrerà depositare il ricorso davanti al Tribunale nei sei mesi successivi. Di per sé non sembra una novità tanto grave, ma è certo che ogni ostacolo in più renda più difficile esercitare i propri diritti.

Qui però a peggiorare radicalmente sono le condizioni dei precari, che già sono l’anello più debole della catena del lavoro. Per la prima volta, infatti, le decadenze che finora riguardavano soltanto i lavoratori a tempo indeterminato vengono estese anche a contratti a termine, interinali (in somministrazione) e a progetto, e perfino ai casi di trasferimento di azienda e agli appalti più o meno fasulli. La riforma riguarda un numero enorme di lavoratori: basti pensare, oltre ai precari veri e propri, a tutti quelli che lavorano nel sistema delle cooperative e dei consorzi.

Che cosa significa in concreto? Prendiamo per esempio un precario con il contratto a termine o interinale o a progetto: alla scadenza del contratto dovrà decidere nello spazio di due mesi se aspettare un possibile rinnovo, rinunciando per sempre a impugnare il contratto precedente, oppure fare subito causa all’azienda per ottenere il posto a tempo indeterminato e bruciarsi in partenza così ogni speranza di rinnovo. Non mi stupirò di sicuro se le aziende cominceranno a sfruttare questa nuova arma di ricatto, tirando in lungo le procedure di rinnovo dei contratti.

Se poi uno deciderà ugualmente di fare causa per avere il posto a tempo indeterminato, e la vincerà, la legge prevede un tetto al risarcimento che può ottenere, non oltre un anno di retribuzione, anche se magari dalla scadenza del contratto alla riassunzione ne sono passati due o tre.

Tanto per non farsi mancare nulla, queste novità, una volta entrate in vigore, si applicheranno anche ai contratti già in corso e perfino, quelle in tema di risarcimento, alle cause già iniziate.

Conclusioni.

Quando il disegno di legge verrà approvato, il Governo dirà che è venuto incontro alle proteste dei lavoratori e la cosiddetta opposizione parlamentare cercherà di far passare le modifiche della disciplina dell’arbitrato per una grande vittoria. Ora, anche se è vero che l’attacco all’art. 18 è stato sventato principalmente per merito della reazione che è esplosa immediatamente, non bisogna lasciarsi ingannare. Il pericolo è tutt’altro che passato e le conseguenze rimangono gravi.

Oltretutto, sulla “flessibilità” del lavoro non si può non notare che le posizioni della destra e del Partito Democratico sono sostanzialmente identiche: lo dimostra il fatto che nei mesi scorsi il PD ha presentato una proposta di legge che di fatto sospenderebbe l’art. 18 per tutti per i primi tre anni di contratto. Una proposta simile a quella del C.P.E. che era stata approvata in Francia nel 2006 (da un governo di destra) e contro cui avevano protestato milioni di giovani e lavoratori fino a ottenerne il ritiro.

È chiaro che la lotta per i diritti, e in particolare per quelli dei lavoratori deve avere altri punti di riferimento e deve partire ed essere condotta dal basso. Credo poco negli slogan, ma se proprio dovessi lanciarne uno oggi sarebbe: “Facciamo come in Grecia”.

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